IL MECCANISMO VIOLENTO DELLA FAMA
Gli applausi sublimano l’aggressività nei confronti di chi per qualche ragione si è distinto, scriveva Calasso. E ora che la coppia d’oro sembra aver perso tutto – fine del successo, fine dell’amore – resta una domanda: che ruolo ha avuto chi è rimasto per anni a guardare, volubile in quanto spettatore? Una filosofa, che conosce bene la fragilità della reputazione, prova a rispondere
Non avrei mai pensato di aprire un articolo confessando che provo, ultimamente, qualcosa di molto simile alla tenerezza nei confronti di Chiara Ferragni, e invece eccomi: guardo le sue fotografie più recenti, leggo laconiche didascalie vagamente motivazionali, vedo rimbalzare le notizie su di lei, e sento un dispiacere sottile per una persona che non conosco e con ogni probabilità non conoscerò mai; un dispiacere quasi fastidioso, una forma insinuante di imbarazzo. Ma cosa di preciso mi imbarazza, nel mio ruolo di spettatrice passiva, fra milioni di altri spettatori, di questa fase discendente della parabola dei Ferragnez, di cui negli anni abbiamo conosciuto, volenti o nolenti, dettagli condivisi ad arte della vita quotidiana — le vacanze e le modanature della camera da letto, i mobili della cucina e le prime parole dei bambini?
Forse, il disagio nasce dal fatto di assistere a un disvelamento inquietante. La crisi della reputazione di Chiara in seguito a guai giudiziari che nella percezione pubblica hanno assunto dimensioni ciclopiche, tanto da incrinare la superficie levigata di una notorietà altrettanto immensa, ma fino a ieri apparentemente innocua e patinatissima, rivela la violenza intrinseca del meccanismo della fama. Scrive Roberto Calasso nella Rovina di Kasch, a proposito del fenomeno della star, che gli applausi sublimano aggressività nei confronti di chi per qualche ragione si è distinto. La tesi mi pare tutt’altro che implausibile, ora che l’accosto alla storia d’amore dei Ferragnez che i titoli di giornali descrivono, diffondendo dettagli, come arrivata al
capolinea. Certo, fino a pochi mesi fa erano i diretti interessati a offrire un’esasperante esibizione continua della loro vita privata; certo, questo contrappasso c’è chi lo ritiene meritato, e certo può darsi che sia tutto un bluff, una manovra per sviare, come insinua chi ama mostrarsi al corrente delle segrete macchinazioni dell’informazione, e magari ha pure ragione. Sta di fatto che la favola incrinata mostra all’opera ingranaggi improvvisamente visibili attraverso le crepe, e sono meccanismi antichissimi.
CERCARE IL NOME SU GOOGLE
Fino a qualche tempo fa, quando in una conversazione si nominava Chiara Ferragni, per attenersi a quelle regole da dizionario dei luoghi comuni flaubertiano che finiscono per indirizzare ogni generica chiacchiera sull’attualità era opportuno osservare, anche quando il suo nome compariva in associazione a una qualche critica (era concesso rimproverarle l’esibizionismo, il tedio della vita patinata, soprattutto la sovraesposizione dei figli), che però, certo aveva avuto intuito. Che il suo successo professionale era la prova di un istinto per lo spirito del tempo; che era stata la prima a intuire il potenziale dei social. Che era stata invitata a Harvard; che, insomma, bisognava darle atto di non comuni capacità imprenditoriali.
Oggi quello stesso nome, nelle medesime conversazioni civilissime è associato ad altre frasi, che han fatto presto ad ammantarsi di un identico tono sentenzioso. Oggi si declama che il fenomeno si sta sgonfiando; che gli errori di comunicazione ci sono stati eccome, che la strategia per recuperare follower non funziona, che la faccenda dei pandori è sfuggita di mano, che l’ufficio stampa non ne imbrocca una. Che la favola è finita. Contemporaneamente, sul web impazzano gli insulti nei commenti ai titoli dei giornali, si scatenano haters. Da un lato si proclama a gran voce la propria esasperazione per la storia insignificante, dall’altro si tratta Chiara Ferragni, che certo è stata multata dall’Antitrust, come una criminale pericolosa.
Ed è a questo punto che comincio a sentire per lei una forma di tenerezza.
Chiara Ferragni, in questi giorni, cerca spesso il suo nome su Google. Lo cerca come ho appena fatto io, che non la conosco anche se siamo coetanee e i gradi di separazione fra noi sono pochi: ricordo gli anni del blog The blonde salad, dove il suo percorso ebbe inizio fra molte irrisioni di cui lei non sembrava curarsi. Me l’avevano segnalato degli amici che come lei frequentavano la Bocconi, parecchi anni fa: le sue fotografie avevano la qualità sgargiante delle macchinette digitali, e i social mantenevano un’aura d’innocenza svagata che nasceva dall’uso che ne facevamo, un uso saltuario e per lo più ricreativo. Nell’intervista al Corriere, ora, lei dice di avere da sempre l’abitudine di cercare notizie di sé stessa; ma adesso lo fa con frequenza maggiore, per «avere il polso di quello che si dice su di me, anche se poi mi deprimo di più e mi sento meno forte di prima». E qui, per la prima volta, mi chiedo: chissà com’è, essere Chiara Ferragni.
COM’È ESSERE CHIARA FERRAGNI?
Me lo sarei potuto chiedere in momenti più felici. Quando ho visto il video della proposta di matrimonio — sul palco di un concerto di Fedez, lui inginocchiato, lei sorpresa, talmente sorpresa che, quasi quasi, pareva simulare (ma non è sempre così, quando si viene presi alla sprovvista?). O davanti al sorriso stanco nelle fotografie scattate
CHE PROVA FERRAGNI QUANDO CERCA SU GOOGLE NOTIZIE SU DI SÉ? È COME ASCOLTARE QUALCUNO CHE PARLA MALE DI TE, CON TE PRESENTE
subito dopo la nascita dei loro due bambini. O quando si è sposata in un’interminabile diretta; quando la famiglia si è trasferita nella casa di CityLife, fastosa e impersonale come un hotel di lusso. Quando è stata a Sanremo o quando ha parlato ad Harvard. Oppure, al contrario, nei momenti dei veri dolori: quando Fedez ha raccontato di essere malato, quando la cagnolina Matilda è morta. Non me lo sono mai chiesto; me lo chiedo adesso. Cosa prova Chiara Ferragni quando cerca il suo nome, adesso che leggere i titoli, e i commenti sui social, dev’essere come ascoltare qualcuno che parla male di te senza curarsi, o senza sapere, della tua presenza?
Per quanto mi sforzi, so che le mie ipotesi non arrivano a lambire la scala del fenomeno che lei vive; come non
posso immaginare cosa dev’essere stato per lei ogni passo della sua ascesa, i titoli adoranti, l’adulazione. Il primo red carpet, a Cannes 2011: lei in un vestito rosa, incredula di avere una guardia del corpo, che però non aveva l’incarico di proteggere la sua persona ma i gioielli che indossava: non lei, ma il valore che si portava addosso.
È davvero bastato qualche mese a dissipare quella reputazione monetizzabile, un patrimonio dal valore probabilmente più alto dei gioielli che indossò a Cannes, stupita che le valessero una guardia del corpo? Una reputazione accumulata in anni di assidua condivisione, e di passiva assuefazione del pubblico dei social alla sua vita, all’intimità della sua relazione amorosa, ai momenti buffi vissuti in famiglia. Per anni si è lasciata guardare, l’abbiamo vista vestirsi, uscire, fotografarsi in ascensore, riscaldare piatti pronti, mangiare pizze che misteriosamente rimanevano intere.
Anni di fatterelli minuscoli, di lacrime, sorrisi, sedute di trucco, scherzi a bambini biondi e bellissimi, viaggi, e una serie di gesti di trascurabile importanza che però in qualche maniera sapevano interessare un pubblico disperso e eterogeneo, ipnotizzato forse solo dalla possibilità di assistere allo spettacolo di una vita estranea, ma stranamente vicina. Ora è come se si fosse generata una spinta di Archimede reputazionale: il riconoscimento dell’abilità imprenditoriale («potrà non piacere, ma…»), le donazioni durante il Covid, i figli sovraesposti ma sorridenti, il femminismo come slogan su t-shirt couture, tradotto però anche nella libertà che si nutriva del successo, tutto il gruzzolo di stima, si rovescia in un’ondata d’odio che ingigantisce la colpa. Meglio avere un buon nome che un buon olio, dice l’Ecclesiaste. Ma questa storia mostra cosa succede quando nome e olio coincidono. Quando è la pura fama, il prodotto da smerciare.
Lasciamo da parte la questione giudiziaria, i pandori, gli errori e gli imbrogli possibili: badiamo alla nostra percezione. Questa fase della parabola di Chiara Ferragni, che secondo molti ne segna il declino — la fine del successo, la fine dell’amore — rivela in controluce cos’è stata la fase precedente: la costruzione di una reputazione in forma di prodotto, in dipendenza costante dall’approvazione di un pubblico di “consumatori” il cui ruolo era quello di desiderare la vita esposta. Ovvero, la costruzione di un’infinita ricattabilità da parte degli spettatori, volubili come siamo tutti quando confinati a un ruolo passivo.
UNA STORIA ANTICHISSIMA
Stranamente, questa storia all’apparenza così contemporanea, così nuova, ci ripete cose vecchissime, anzi antiche; non c’è niente di avveniristico nel meccanismo che rivela, se non l’incidentale natura dei mezzi con cui la reputazione è stata costruita e poi, almeno provvisoriamente, incrinata. Virgilio nel quarto libro dell’Eneide racconta il diffondersi della notizia dell’amore fra Enea e Didone liberando nei suoi versi la corsa della fama, «fulminea fra tutti i mali», che nasce piccola e timida ma andando acquista vigore, indifferente messaggera della verità e dell’insinuazione; che stride nella notte sopra le città, ricoperta di tanti occhi e tante lingue quante sono le piume che la vestono.
La volubilità della reputazione riguarda tutti; riguarda noi, che la guardiamo dispiegarsi in una dimensione amplificata dall’eccezionalità del caso, nell’ossessione voyeuristica che fa da contrappasso all’esibizionismo, nel ricatto emotivo dell’empatia per
MEGLIO AVERE UN BUON NOME CHE UN BUON OLIO, DICE L’ECCLESIASTE QUESTA STORIA MOSTRA COSA SUCCEDE QUANDO NOME E OLIO COINCIDONO
chi appare ora vulnerabile. Il pettegolezzo, con la sua natura ancipite (ora lieve divertissement della parola, ora greve atto linguistico), ha un potere distruttivo immenso. Primo Levi, che conobbe ben altre nefandezze, gli dedicò un saggio di tono montaignano, persino nel titolo, Del pettegolezzo: constatando che si tratta di una forza irrepressibile della natura umana. «Chi ha obbedito alla natura trasmettendo un pettegolezzo, prova il sollievo esplosivo che accompagna il soddisfacimento», ha scritto. Di fronte a questa storia, obbediamo alla natura, pur con l’indolenza cui ci hanno assuefatti i social; e sentiamo quel sollievo nella forma di un imbarazzo lieve. E ci chiediamo se davvero sia desiderabile, la fama, nel tempo che ci illude che sia a portata di mano.