«A SCUOLA COME IN TRINCEA RACCONTO BAMBINI E MAESTRI DELLA PROVINCIA CHE RESISTE»
In Un mondo a parte il regista descrive la lotta per salvare l’istituto di un paesino con meno di 400 abitanti, nel Parco Nazionale d’Abruzzo
Ècominciato con un crampo allo stomaco. Siamo a Opi, nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo, 379 abitanti all’ultimo censimento. Ai primi di gennaio di due anni fa, entrando nella scuola chiusa e abbandonata per mancanza di bambini, il regista Riccardo Milani si era subito amareggiato. Ma il crampo vero e proprio è arrivato dopo: «Con me c’era un ragazzo della Proloco, che mi aveva aperto l’edificio. Entriamo e giriamo in queste tre aule vuote: muri scrostati, banchi impolverati, computer accatastati. Lui guardava senza nessun dolore, rassegnato. Come se pensasse: è così, le cose sono cambiate e dovevamo farlo, chiudere la scuola e passare oltre. Ecco io invece non faccio pace con la rassegnazione».
E infatti il film di Riccardo Milani Un mondo a parte (prodotto da Wildside in associazione con Medusa) in uscita il 28 marzo, racconta un altro finale. Una soluzione creativa, collettiva e possibile. La vicepreside (Virginia Raffaele) e il supplente (Antonio Albanese) si ribellano all’ordine di chiusura della loro scuola e organizzano una vera e propria resistenza di tutta la comunità per salvare l’istituto. Milani, che frequenta l’Abruzzo da quando era piccolo, l’ha voluto simbolicamente intitolare a Cesidio Gentile detto Jurico, poeta-pastore di Pescasseroli, coevo e concittadino di Benedetto Croce. Molti altri suoi compaesani sono tra gli attori e le comparse (anche tutti e cinque i bambini) che Milani ha scelto per il film, in cui si mescolano continuamente realtà e finzione.
«Un mondo a parte è una storia di resistenza umana e culturale da prendere come esempio contro l’atteggiamento di chi si adatta senza mai fermarsi a dire: no, questo è troppo grave, proviamo a fare qualcosa. Racconta quel modo di vivere il quotidiano, in autonomia anche dallo Stato, che c’è nella provincia italiana: è un sapersi organizzare tutti insieme, non clandestinamente ma paral
lelamente alle istituzioni».
Un atteggiamento a metà tra la sfiducia nello Stato e l’arte di arrangiarsi. Nel film, di espediente in espediente, si arriva, sorridendo, ai limiti della legalità.
«È quello che succede nel cosiddetto Paese reale: la comunità si cementa senza cappelli culturali o politici, superando ideologie e difficoltà. Non importa di chi è l’idea né chi fa cosa: bisogna raggiungere il risultato, far sì che la scuola non chiuda o che il presidio sanitario ci sia. Anche a Opi ho visto la gente sopravvivere così, sistemando e arrangiando. Poi però i bambini erano diventati troppo pochi e i genitori si sono detti che non potevano più stare in queste aule, da soli, senza scambio e li hanno mandati nel paese vicino, a Pescasseroli». Pensavano forse di fare il meglio per i propri figli.
«Se non fosse che questi paesi hanno delle ricchezze come il territorio e il turismo. E poi ad una comunità che vive servono medici, idraulici, geometri, architetti. Da qualche anno mi sembra che stia emergendo un po’ di consapevolezza tra i giovani che rimangono. È la storia, nel film, del ragazzo che ha deciso di coltivare le lenticchie. Dimostra che si può tentare faticosamente una strada di normale mantenimento di una comunità che vive nel proprio territorio e delle proprie ricchezze». Lei fa dire a Virginia Raffaele, la vicepreside, «se chiude la scuola muore il paese». È una equazione così automatica?
«La scuola in queste comunità è una specie di trincea. Gli insegnanti combattono ogni giorno facendo anche cento e più chilometri in macchina o in treno, d’inverno spesso nelle bufere di neve, per fare lezione in diversi paesi. Ci sono quelle che si chiamano le “pluriclassi” e che io a Roma non avevo mai visto: sono classi formate da tre bambini di prima, otto di terza, cinque di quinta, tutti insieme. Fare questo mestiere così è un modo di difendere anche la funzione, il ruolo. Lo fanno con un affetto totale per questi pochi bambini: sono insegnanti che sanno tutto delle famiglie, hanno il numero di telefono dei genitori, sono sempre in contatto con loro e sono in attività – come si dice nel film – 24 ore su 24, come in un pronto soccorso».
La scuola Cesidio Gentile alla fine viene salvata da tre ucraini e un marocchino.
«Non è una mia idea ma ciò che accade normalmente da decenni in queste terre. Il professore di sostegno del film è stato vicepreside di una scuola in montagna: quando racconta cosa facevano con gli albanesi, dice quello che si faceva trent’anni fa pur di mantenere in vita i paesi. Oggi nella Piana del Fucino succede con i nordafricani: Gioia dei Marsi si regge su di loro. Prima erano tutti clandestini, vivevano nei campi raccogliendo ortaggi e frutta, con i caporali che venivano a prenderli. Quando andavo a pescare, li vedevo che aspettavano il furgone lungo la strada. Poi sono stati regolarizzati e si sono integrati e oggi… quando il Marocco due anni fa è andato in semifinale ai mondiali, nel Fucino c’erano i caroselli di motorini».
Non sempre l’integrazione è spontanea, specie nelle realtà piccole.
«L’integrazione qui è nei fatti, non c’è una precisa scelta o volontà politica. I nordafricani sono inseriti perché lavorano e chi vive lì sa che, se non ci fossero loro, il paese morirebbe».
La differenza tra teoria e pratica dell’integrazione lei l’aveva raccontata in Come un gatto in tangenziale.
«Anche quella è una storia vera: una delle mie figlie a quattordici anni mi fa capire che ha un ragazzo. Io avevo da poco visto il docufilm Residence Bastogi dove si raccontava la durezza d questo luogo. Di dov’è? le chiedo. Bastogi. Allora io faccio quello che fa Antonio Albanese nel film: la seguo, seguito a mia volta dai genitori di questo ragazzo. La diffidenza era reciproca. Alla fine, la casa in cui abbiamo girato il film è quella della famiglia di questo ragazzo: ancora oggi sento i genitori, anche se i nostri figli si sono lasciati dopo sei mesi». Da Auguri professore a Un mondo a parte, nei suoi film ci sono sempre scuole e professori un po’ speciali.
«Mi ispiro agli insegnanti che ho conosciuto negli anni: in Un mondo a parte ne ho anche coinvolti un paio».
Sono cambiati nel tempo?
«Totalmente. Con Auguri professore, alla fine degli anni Novanta ho fatto diverse proiezioni nelle scuole. Sono tornato dopo 25 anni con il Gatto.
«CI SONO INSEGNANTI CHE FANNO OLTRE 100 KM AL GIORNO PER INSEGNARE IN CLASSI DI PIÙ PAESINI. È UN PRONTO SOCCORSO CULTURALE»
Ho visto una trasformazione economica e un senso di rassegnazione enormi: gli studenti facevano rumore e loro lasciavano correre, c’era anche un po’ di timore verso i ragazzi. Invece nel mondo a parte di Opi è come se il rapporto diventasse elementare, basico, i bambini non hanno il senso del branco. Sono spiriti liberi…».
Nel film interpretano sé stessi. Come avete fatto a trasformarli in attori?
«Abbiamo avuto un rapporto meraviglioso, anche se a volte sono stati poco gestibili: a stare lì con noi a girare sette, otto ore, si sentivano in gabbia, chiusi, loro che sono abituati a stare all’aperto».
Lei che studente è stato?
«Non ero un bravo studente. Andavo allo scientifico Giovanni XXIII (oggi Pitagora; ndr), in via Tuscolana a Roma. In prima ero nella sezione “X” e facevamo i doppi turni perché non c’erano abbastanza scuole. Allora non percepivo l’importanza dello studio, non mi sono appassionato. Con la filosofia nel triennio qualcosa è cambiato e un po’ di senso è arrivato, forse anche perché ho avuto un professore particolare, che era Alexander Langer. È stato determinante come personalità: non che tutti lo seguissimo sulle sue idee di allora ma aveva un’attenzione alle cose che ci ha aiutato molto. Ancora oggi mi fa molto effetto pensare che si sia tolto la vita, proprio come Mario Monicelli: due miei maestri, uno a scuola e l’altro nel cinema». Ora, da papà, lei si occupa della scuola delle sue figlie?
«Con la scuola delle figlie è andata meglio, anche se le due più grandi hanno avuto un percorso scolastico meno intriso di sensibilità al sociale di quello che ho avuto io negli anni Settanta. Quando si è trattato di decidere per la più piccola, all’inizio la discussione con mia moglie è stata forte tra scuola pubblica e privata. Ma dopo i primi giorni in classe, quando ho visto l’entusiasmo di nostra figlia, io che mi battevo per la scuola pubblica ho cambiato idea: credo che sia una questione di metodo, perché è una scuola internazionale. Ma in futuro tornerà alla pubblica».
Ha mai pensato di fare l’insegnante?
«No, tra i tanti mestieri che avrei potuto fare, l’insegnante non c’è: non credo che ne sarei capace. Forse avrei voluto fare il sindaco».
Il sindaco? Magari il sindaco di Roma?
«Sì, il sindaco, anche il sindaco di Roma. Ma non ho pretese, sia chiaro! È un mestiere complicatissimo. E io faccio a malapena il mio. È un desiderio infantile: sono nato in una casa sopra il borghetto latino, che era una borgata vera e propria, tipo Kibera in Kenya. Era una realtà pesantissima, finché la zona non è stata bonificata e sono state assegnate le case. Mi ricordo il senso di giustizia che ho provato in quel momento. È quello che faccio dire nel film a Virginia Raffaele. E lo penso realmente: «Fare l’abitudine al peggio» è una delle cose più brutte che gli uomini possano fare».
È un po’ lo stesso senso di rivolta della protagonista del film di sua moglie Paola Cortellesi, C’è ancora domani. Come vive il suo successo, ora che è più famosa lei?
«Non è una novità, ci sono abituato, è sempre stata più famosa di me! Sono contento per lei perché se lo è costruita un passo per volta con fatica, dedizione e coerenza. Il suo successo è un segnale etico fortissimo: vedere la gente emozionata per una cosa per la quale forse non dovremmo poi emozionarci così tanto, – un diritto elementare come quello di votare , che dovrebbe essere scontato –, vuol dire che non tutti si sono rassegnati».
«NELLE REALTÀ PIÙ GRANDI VEDO INVECE UN SENSO DI RASSEGNAZIONE ENORME TRA I DOCENTI E ANCHE UN PO’ DI TIMORE VERSO I RAGAZZI»