DARIO BELLEZZA E L’EGOTICO PUBBLICO DELLA POESIA
Guardando il documentario di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese Bellezza, addio (Zivago film e Luce Cinecittà) si viene invasi dal corpo fisico e poetico di Dario Bellezza, a partire dal faccione e dalla voce nasale e affricata, di cui scriveva: «M’impaura la mia incerta voce / che certo smania il suo tono / implacabile di verità. Una voce /sottile, smagata che corrode / l’anima mia nera di peccati...». C’è la sua sedicente bruttezza, la vanitosa umiltà, l’orgoglio del ridicolo, lo sberleffo della pietà, la verità della poesia cioè la bellezza. Dario Bellezza (1944-1996) fu poeta vero, come dice Franco Cordelli commentando i fischi, i corpi nudi sul palco a sfidarlo, durante il festival di Castelporziano: «Al pubblico che pretendeva di leggere al posto suo lui dice “no, il poeta sono io. Non voi. Io sono qui, non sono merce, sono vero, e queste mie poesie sono vere”. In questo è un poeta del Novecento, non del XXI secolo. Oggi chiunque può dire io sono poeta e nessuno lo contraddice». L’esistenza, con il precoce riconoscimento letterario e le precoci frustrazioni, l’epilogo pieno di maldicenza per Aids, è provvisoria solo nella nota biografica. Come nell’incipit di Roma, 1989. Dove tutto è già tardi. La vera poesia resta. Un po’ di più, ma resta. Anche solo per chiedere perdono a chi non si sa amare.
È avventizio il mio essere reale. Sleale è insistere su chi sono io. Il punto di partenza è scontato – l’arrivo è certo nello stato attuale: morte come sostanza o strato finale di un cuore malato.
Oh, vorrei rinascere, ritornare indietro ma non posso. Troppo ho peccato di peccati non miei, attribuiti a posteri, mancati inganni.
Cerco amori nuovi, violente sere. Perdono chiedo a chi non amai.
Forse verrò domani ad un prato verde, – e non sarò più solo
DARIO BELLEZZA