MOSCA, TEHERAN E UNA PROMESSA: ANDIAMO A VOTARE PER L’EUROPA
Li abbiamo visti, a migliaia, mettersi in coda a Mosca per partecipare ai funerali di Alexei Navalny, nella chiesa dell’Icona della madre di Dio, e andare a deporre un fiore sulla bara dell’oppositore, stroncato in una prigione siberiana. E, nei giorni successivi, ancora migliaia e migliaia, uomini e donne: tre generazioni in cammino, scavalcando cumuli di neve, per raggiungere il cimitero Borisovsky. Lo hanno fatto sapendo che sarebbero stati identificati – identificati come nemici della patria putiniana – sotto lo sguardo mascherato delle forze di sicurezza. Hanno dato corpo e voce a quella «bella Russia», capace di amare anche nel dolore, che Navalny non smetteva di disegnare sui vetri velati dal gelo. Sfidando così, con il sorriso, lo zar, i suoi apparati, i suoi veleni. Ora Yulia, la vedova, ha preso il testimone, rilanciando un boicotaggio delle elezioni che è a prova di rappresaglia: presentiamoci sì ai seggi, ma facciamolo tutte e tutti insieme, domenica, a mezzogiorno in punto. Sarà come unirsi a un corteo diffuso.
Non li abbiamo invece visti, a milioni, andare a votare a Teheran, il 1° marzo. Hanno scelto l’astensione – nella capitale oltre l’80 per cento, al 60 nel Paese – per mostrare agli ayatollah e ai pasdaran che il popolo iraniano non ha più intenzione di assecondare i riti di un regime illiberale, sessista, fratricida. Quel regime che, sin dal 1979, quando lo scià prese il largo e Khomeini il potere, stabilì di sfilare l’aggettivo “democratica” dalla sequenza che avrebbe definito la neonata Repubblica persiana. Come spiegò la Guida Suprema all’inviata Oriana Fallaci: «Perché mai dovremmo usare questo termine occidentale? L’Islam è tutto, dire ‘islamica’ basterà». Dovrà bastare. Fu così che la promessa “Repubblica democratica islamica di Iran” si avviò spedita lungo la sua china integralista. Neppure le ragazze e i ragazzi, protagonisti della rivoluzione dell’autunno 2022, hanno avuto molti dubbi sul colore del proprio partito: noi abbiamo già votato con il rosso del nostro sangue, che le urne restino vuote. «Se il regime ci vuole ai seggi – ha commentato la madre di Mahsa Amini, la 22enne bastonata a morte dalla “polizia morale” – sicuramente non potrà venirne alcun bene per noi».
Mosca, Teheran. In Russia, l’idea della protesta pacifica Polden Protiv Putin, mezzogiorno contro Putin, nel segno dell’uomo che rappresentava l’unica alternativa al presidente-padrone. In Iran, la scelta di non farsi intruppare ai seggi, anche se – parodia di festa – vi era stata ammessa la musica ad alto volume e le donne (per un giorno) potevano presentarsi senza velo.
E noi riusciremo a metterci in movimento e magari di traverso per tenere le democrazie in salute? Oppure l’appuntamento elettorale di giugno, nei 27 Stati membri dell’Unione europea, ci appare già come un fastidio, un’inutile croce da mettere su una scheda con candidati solo “appoggiati”, pronti a dileguarsi verso altri incarichi ritenuti più prestigiosi?
L’astensione viene a volte descritta, pericolosamente, come l’espressione di democrazie mature, quindi tranquille. Non ho niente da temere perché il sistema è stabile, comunque vada: voterò solo se penso di essere parte dello schieramento vincente. Questa non può essere la nostra Storia. Il voto è una conquista da riattivare a ogni consultazione, soltanto nei recinti dei regimi non recarsi alle urne è l’espressione di una volontà altrimenti intangibile. Noi siamo il Paese dove nel 1946 le donne, finalmente previste dal suffragio universale, si incitarono a «stringere le schede come biglietti d’amore» e risposero con un’affluenza che sfiorò il 90 per cento. In una stagione, la nostra, che vede le democrazie liberali minacciate dalle armate autocratiche fuori e dagli speroni populisti dentro, giugno 2024 deve tornare a essere festa vera. Promessa di futuro nella comune scrittura del romanzo europeo.
L’APPELLO DELLA VEDOVA DI NAVALNY E L’ASTENSIONE IN IRAN SONO UNA CHIAMATA A RITROVARE ENTUSIASMO PER LA DEMOCRAZIA