«LA MALATTIA, UN PUNTO E A CAPO: È FOLGORAZIONE»
«Rileggi la vita in una prospettiva nuova, sorprendente. La morte è una virgola». Dalla biografia al romanzo
Susanna Bissoli ha esordito per Einaudi con I folgorati. La protagonista, Vera, si ammala di cancro al seno per la seconda volta; sua sorella, Nora, si trova a crescere da sola la figlia; Zeno, il vecchio padre, burbero ma al contempo spassosissimo, è uscito da poco dal dolore per aver perso la compagna di una vita. Bissoli ha scritto un romanzo intimo che mette in scena le coreografie familiari: quando si impara, quasi danzando, a spartirsi il dolore e la fragilità col sorriso sulle labbra. Serrando i dialoghi in catene di parole mai dolenti ma sempre sorprese, l’autrice rincorre la vita, le sue storie, la luccicanza per cui vale la pena resistere.
Questo romanzo pieno di grazia ha un titolo impetuoso. Chi sono i folgorati?
«C’è un articolo di Internazionale che ho conservato per anni. L’articolo faceva una distinzione tra fulminati, le persone che muoiono colpite da un fulmine, e appunto i folgorati, quelle che sopravvivono. Tutti i protagonisti di questa storia sono in un certo senso dei “folgorati”: hanno attraversato la malattia o un grande dolore, ma sono sopravvissuti. Sulla pelle dei folgorati sono rintracciabili dei piccoli buchi, che indicano da dove è entrato e da dove è uscito il fulmine. Sono segni che da fuori non si vedono, sono poco evidenti, eppure i folgorati si riconoscono tra di loro».
La vita dei protagonisti si costruisce sulla mancanza: c’è sempre qualcosa o qualcuno che è venuto meno. Ma è da queste mancanze che sembra venire la loro forza.
«La mancanza che provano i personaggi li spinge sempre a una ricerca. Per Zeno, il padre della protagonista, la ricerca ha a che fare con le storie. E per me il nucleo del libro è proprio questo: l’importanza delle storie».
«Sono le storie che ci salvano o siamo noi a doverle salvare»?
«Con quella frase ho deciso di esplicitare il pensiero guida nel romanzo».
E qual è la risposta?
«Direi entrambe le cose. Da tempo lavoro con i migranti, soprattutto con le donne. Da dodici anni, aiuto le persone a raccontarsi, a salvarsi portando una testimonianza che non deve essere dimenticata. Organizzo laboratori di narrazione orale che si svolgono in cerchio e in diversi contesti. Lo faccio soprattutto in una casa del comune di Verona, Casa di Ramia, dove le donne italiane incontrano le donne straniere. Ci sediamo insieme e raccogliamo storie e testimonianze. Organizziamo reading pubblici dei racconti orali trascritti. Un anno abbiamo affittato un pullman e siamo andate al Salone del Libro.
Vera è una donna che sa fermarsi, quasi paziente nei confronti della malattia, ma è anche qualcuno che alimenta la propria profonda
irrequietezza.
«Vera vive il conflitto tra le sue radici e il desiderio costante di essere altrove. Il desiderio di allontanamento lo colma con le storie che scrive e vorrebbe scrivere, ma al contempo è molto coinvolta dagli affetti famigliari. Vera ha qualcosa di me, condividiamo il desiderio di fuga e il sentimento di nostalgia anticipata. Prima che morisse mia madre la abbracciavo e pensavo a quando non ci sarebbe stata più. Tutti i sentimenti di Vera sono permeati da questo tipo di nostalgia che anticipa e amplifica la mancanza».
Desiderare di essere da un’altra parte: non è una caratteristica comune a chi scrive?
«Penso proprio di sì. Chi scrive costruisce un altro piano da cui attraversare la vita. L’immaginazione è un modo per trovare nuove relazioni tra le cose, formulare altre possibilità. La scrittura dice Vera sta innanzitutto dentro chi scrive, è un modo altro di vivere le cose». Cos’ha in comune Vera con Zeno, da cui decide da andare a vivere dopo la diagnosi?
«Condividono la curiosità verso il mondo, verso le sue storie. Quest’estate rileggevo il De rerum natura, tradotto da Milo De Angelis, e pensavo che lo sguardo di Lucrezio assomiglia molto allo sguardo di Zeno, che a sua volta ha molto a che fare con quello di mio padre».
Vera e Zeno condividono un dolore fisico, ma anche tantissima ilarità e tantissime parole. I folgorati è un libro fatto di dialoghi.
«La mia scrittura è sempre pilotata dal dialogo. Ho iniziato a scrivere da drammaturga alla scuola di teatro di Bologna. Per anni ho scritto soltanto dialoghi e le mie guide intellettuali sono stati Pinter e Beckett. Poi a un certo punto ho avuto la necessità di trasformarla in una scrittura che non fosse scenica. Parto sempre scrivendo dialoghi poi torno indietro e trasformo certe parti dialogiche in parti descrittive».
Parola parlata e parola scritta. Zeno e la nipote Alice inventano un linguaggio extraterrestre, lo yàtalano. Vera scoprirà che suo padre ha scritto a mano un intero romanzo (dal titolo Un
uomo fortunato), lei stessa coltiva il suo spazio di libertà nella scrittura. I folgorati può essere inteso anche come una storia che racconta le due dimensioni del linguaggio, cioè del nostro vivere nel mondo?
«È proprio così. Oralità e lingua scritta sono due livelli di narrazione molto presenti nella mia vita. Ho l’esperienza dei laboratori, fatta di dialoghi costanti e di restituzione orale, e poi ho la dimensione della scrittura e il desiderio di cesello che si porta dietro. In un discorso orale ci sono delle folgorazioni, dei lampi, delle immagini, ma non c’è il controllo. Sono affascinata dal rumore dei discorsi, ma poi ho bisogno di sedermi e scrivere che è un modo di prendersi più cura delle parole e delle storie stesse».
La macchina degli abbracci di Temple Grandin, L’Eternauta, la santa di Cason… Il romanzo è anche una storia fatta di tante piccole storie.
«A un certo punto compare un “magnetone”, un plico di fogli di Vera. Questo stesso romanzo l’ho chiamato per tanto tempo “magnetone”. Un file dove per dieci anni ho raccolto storie e piccoli racconti sulla malattia, la morte, fatti di cronaca, stralci di saggi sulla narrazione: lo immaginavo come tante piccole schegge che si andavano tutte a conficcare in un magnete. Inizialmente volevo scrivere qualcosa di lontano dalla mia biografia e ho cominciato a sviluppare la storia della santa di Cason, dopo un po’ però mi sono bloccata anche per colpa della malattia. Parallelamente stavo raccogliendo appunti, stralci di dialogo tra me e mio padre, anche se non accettavo davvero di voler scrivere di noi, ma più cercavo di metterlo da parte e più lui si metteva al centro della scena. È diventato un’urgenza. A un certo punto ho pensato che quell’insieme di schegge poteva costituire il nucleo della relazione tra Vera e suo padre. C’è una frammentarietà nel romanzo che nasce dalle storie condivise tra padre e figlia».
Siamo sempre inconoscibili gli uni agli altri. Zeno è sempre stato uno che studiava i campionati, stilava listini, controllava fatture. E ora sua figlia lo scopre scrittore. Gli altri sono un enigma ma anche, talvolta, una sorpresa piena di luce.
«È il bello delle relazioni. La sorpresa in questo caso nasce dall’uscita dai ruoli. Vera e Zeno escono dal proprio ruolo di figlia e di padre e riescono a vedersi come persone a tutto tondo. Nel ruolo ci sono le aspettative, gli stereotipi, c’è meno libertà di conoscersi. Invece loro si incontrano come due individui».
«Quello che voglio dire è che la malattia è un punto e la morte una virgola». In questa frase di Vera c’è una grandissima saggezza.
«La morte è una virgola perché non arriva mai alla fine di qualcosa, lascia sempre tutto in sospeso. Mentre la malattia per me è un punto, perché costituisce una cesura: tutto cambia improvvisamente, da un giorno all’altro. È un punto a capo che ti permette di tornare indietro e di rileggere quello che è accaduto fino a lì oppure di guardarlo dall’alto in una nuova prospettiva. Di solito è una prospettiva sorprendente».
«NON ACCETTAVO DAVVERO DI VOLER SCRIVERE DI ME E DI MIO PADRE. MA PIÙ CERCAVO DI METTERLO VIA, PIÙ DIVENTAVA URGENTE»