ILARIA ALPI
LA FINE, A 32 ANNI, DI UNA CRONISTA VERA NELLA SOMALIA OSCURA DEI RIFIUTI TOSSICI
Domenica 20 marzo 1994 alle 15 e 5 minuti il Tg3 interrompe Fabio Fazio e Quelli che il calcio per dare, con edizione straordinaria, una di quelle notizie che nessun collega vorrebbe mai dover dare: Flavio Fusi, addolorato e smarrito, comunica che la giornalista Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin sono morti sul lavoro. Era talmente sgomento che addirittura sbaglia l’età della collega, 28 anni invece di 32. Erano stati giustiziati a Mogadiscio, in quella che da subito era sembrata un’esecuzione eseguita sul campo a distanza ravvicinata.
Ilaria era una cronista determinata e appassionata di verità, Miran un operatore di valore con un figlio, Ian, di 8 anni: erano appena tornati a Mogadiscio da Bosaso, porto a Nord dove avevano intervistato il sultano locale sul traffico di rifiuti tossici. Nella visione di Ilaria la Somalia era una tappa fondamentale nel commercio mondiale di rifiuti collegato a quello delle armi. Erano gli anni della Restore Hope, operazione di pace delle Nazioni Unite per porre fine alla guerra civile del 1991, a cui partecipava l’Italia. «E lo stesso Paese che mandava truppe per la pace, armava una parte dei signori della guerra con uno scambio ancora più complesso, armi in cambio di rifiuti tossici». Ovviamente stoccati in posti dove c’era quello che serviva: lo spazio. Lo ha detto Roberto Saviano in una trasmissione che accuratamente ricostruiva il calvario giudiziario, condotta da Andrea Vianello, allora direttore di Rai3, per i 20 anni dalla morte di Ilaria e Miran.
Da subito, da ancor prima che si aprissero le indagini, le domande e le stranezze sono state tante. Intanto l’intervista di due ore al sultano con varie ammissioni si era ridotta a 15 minuti; era sparita un’agenda di Ilaria (c’è sempre un’agenda che manca all’appello nell nostra Storia) e alcuni suoi bloc notes, erano solo rimasti brandelli di appunti: «Perché questo è un caso particolare» aveva annotato riferendosi alla sua indagine somala. D’altra parte il bagaglio, partito sigillato da Mogadiscio, era arrivato in Italia senza sigilli.
Così finiva la breve storia di vita di Ilaria, ragazza tosta e con voglia di conoscere il mondo al liceo Tito Lucrezio Caro di Roma, poi una laurea alla Sapienza in Lingua e letteratura araba, e tre anni al Cairo per imparare l’arabo con cocciutaggine (una compagna di stanza che non parlava né italiano né inglese),
gli inizi giornalistici a Paese Sera e l’Unità per poi approdare al Tg3. Ma quel giorno in cui finiva la parabola di Ilaria, cominciava un’altra storia: la battaglia dei due genitori, Giorgio e Luciana Alpi, che per anni si sono battuti per far emergere la verità, una verità che per loro era chiara fin dall’inizio ma che faticava ad affermarsi fra depistaggi, tesi prefabbricate, conclusioni annacquate fra gradi di appello e due Commissioni parlamentari di indagine. È stato offerto da testimoni dubbi un capro espiatorio che si professava innocente e non veniva riconosciuto colpevole dalla stessa Luciana Alpi: quando Hashi Omar Hassan ha ottenuto i domiciliari, la prima telefonata è stata per lei e si è presentato chiamandola mamma. La Commissione presieduta dall’avvocato e politico Carlo Taormina poi se l’è cavata dicendo, non senza offesa, che Ilaria era in Africa in vacanza, e che le voci di un’esecuzione erano state messe in giro ad arte.
La faccenda invece aveva tutt’altro spessore, visto che, come documentato dal giornalista Riccardo Bocca nel libro Le navi della vergogna (Rizzoli), il referto dell’esame autoptico sparito dall’incartamento ufficiale era inopinatamente riapparso tra le carte di un trafficante internazionale di armi. «Hanno mentito e continuano a mentire. Hanno solo bisogno di mettere una pietra su un caso che ancora brucia» aveva detto prima di morire (nel 2018) Luciana Alpi.
Anche Ferdinando Vicentini Orgnani, regista del film Ilaria Alpi, il più crudele dei giorni, protagonista Isabella Ragonese, ha incontrato difficoltà nel suo lavoro: cercava di reclutare alcuni protagonisti in loco per dare alla storia accenti di verità, ma dopo il primo incontro quasi tutti sparivano senza dare spiegazioni. «Abbiamo poi saputo che c’erano state minacce molto dirette e precise che intimavano ai nostri potenziali attori di non prendere parte al film. Questo perché la vicenda di Ilaria Alpi si innesta in un quadro complicato ulteriormente dal conflitto tra i clan e dalle dirette responsabilità dei somali nella preparazione ed esecuzione dell’omicidio» ha raccontato a Francesco Barilli. Ora un nuovo anniversario, 30 anni, con poche verità. È partita un’iniziativa nelle scuole, Una stella di nome Ilaria Alpi, per tenere i riflettori accesi. Che almeno le nuove generazioni sappiano della passione di Ilaria e di tante giornaliste coraggiose, come Maria Grazia Cutuli o Anna Politkovskaja e molte altre, che nel mondo sono morte per inseguire la verità.