PARITÀ DI GENERE IN AZIENDA «CONVIENE ALLA CRESCITA DEL PIL MA PER TROPPI UOMINI È ANCORA UN “TEMA SOFT”»
La giuslavorista Stefania Radoccia e la ricerca di Ey su leadership femminile ed equità salariale. «Le donne pensano al progetto da portare avanti più che al ruolo. Io ero disposta a lavorare 24 ore al giorno, allora usava così. Oggi i giovani cercano inv
uando le hanno tolto le rotelle alla bici, Stefania Radoccia pedalava negli spazi dell’azienda amministrata dal padre. Era lì anche quando ha imparato a guidare il motorino. Il sabato e la domenica accompagnava suo papà a parlare con il custode: ascoltava i discorsi, chiedeva di che cosa si occupassero tutte quelle persone. «Sono cresciuta sulle linee di produzione», dice. In mezzo alla gente, tra le storie aziendali e le rivendicazioni dei sindacati. Per questo si è appassionata ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici ed è diventata una giuslavorista.
Dal 2019, occupa il ruolo di Managing Partner Tax&Law di Ey. Dai vertici ammette le difficoltà di livellare le disparità di genere. Dice: «Se analizziamo le uscite dall’università, in media le donne sono di più degli uomini, eppure lavora soltanto il 55% della popolazione femminile, rispetto alla media europea siamo parecchio indietro». E poi aggiunge: «Se in famiglia qualcuno deve rinunciare al lavoro per occuparsi dei figli e delle figlie è quasi sempre la donna perché ha lo stipendio minore».
Tra i dati raccolti tramite una ricerca di Ey, Radoccia si focalizza su alcuni in particolare: il 23 per cento delle dirigenti e il 26% dei dirigenti pensano che la parità di genere sia qualcosa che arriverà in modo naturale, «come se la calassero dall’alto, per grazia ricevuta». Continua: «È un problema, significa che tante imprese non hanno piani strategici per raggiungere l’equità. Eppure, le aziende creano aspettative nelle persone, le lavoratrici sono più consapevoli di non avere le stesse opportunità di carriera».
Dove vuole arrivare?
«La comunicazione non manca. Tanti programmi aziendali parlano di parità di genere ma poi quando devono venire effettivamente messi a terra dai dirigenti rimangono sospesi: è pinkwashing». Perché quei programmi non si attivano?
«Secondo un nostro studio, il 46% delle dirigenti e il 60% dei dirigenti ritengono che la promozione di più donne in una posizione di potere sia un impegno da assumersi ma non una priorità».
Cosa spaventa?
«Non credo ci sia uno spavento o una paura, ma una sottovalutazione della questione, una noncuranza. Nei vertici delle società quotate, ci sono soltanto il 2% di amministratrici delegate, vuol dire che negli spazi dove c’è la possibilità di gestire budget per cambiare le cose, non ci sono donne, ma uomini. Probabilmente quegli uomini pensano che promuovere le donne sia un tema soft, non legato al conto economico. Invece lo è: la leadership femminile con
viene alla crescita del nostro Pil».
Ci trasciniamo ancora gli stereotipi: donna uguale cura, uomo uguale autorità?
«Questo pregiudizio culturale c’è. Le dirigenti spesso nelle aziende occupano ruoli senza portafoglio, non sono negli spazi dove si gestiscono potere e soldi. Forse si pensa che una leadership maschile sia più efficace, in realtà io credo che la leadership femminile sia più generativa: le donne pensano al progetto da portare avanti più che al ruolo. Questo lo sento come un tema personale». Cioè?
«Se prendo una posizione la prendo perché voglio mettere a terra un progetto, non perché credo che quella posizione mi porti potere o visibilità. Ma per me la leadership è un concetto che non ha una connotazione di genere. Contano le persone».
Quante persone lavorano per lei? «Circa 900».
E per arrivare a gestire quelle 900 persone a quanto ha rinunciato in quanto donna?
«A nulla, le donne non dovrebbero rinunciare proprio a niente. Io ho dovuto lavorare tanto e in questo percorso sono stata sostenuta dalla mia famiglia: marito, due figli, due cani, tanti affetti. Non ho mai pensato che per la carriera si dovesse rinunciare a qualcosa, ho cercato di mettere tutto insieme applicando alla famiglia lo stesso concetto che applico alla leadership».
Cosa intende?
«Bisogna essere inclusivi e gentili. Ovvio che ho fatto dei sacrifici in termini di tempo per me stessa. Famiglia, figli e lavoro occupano il 100 per cento del mio tempo. Ho fatto fatica? Sì. Sono stati fatti sacrifici? Sì. Ma ho sempre avuto davanti a me l’obiettivo da raggiungere. Sono stata anche un’atleta agonista».
Di quale sport?
«Ho giocato a pallamano in serie A e praticato equitazione ad alti livelli. Ho fatto anche sci e pallavolo».
È ambiziosa.
«Sì, molto, ma l’ambizione è una cosa positiva, non negativa, soprattutto al femminile viene vista in cattivo modo. Invece vuol dire dare un senso alle cose che fai nella vita. Significa che generi e porti avanti dei progetti in cui includi le persone, non solo te stessa».
Cosa le chiedono i giovani ai colloqui?
«Sono più attenti alla sostenibilità, alla parità di genere, all’alternanza vita privata e professionale. Domandano anche quante ore devono lavorare. È giusto, loro chiedono quello che la mia generazione non ha mai osato chiedere». A lei cosa le premeva?
«Il percorso per diventare partner. Ero disposta a lavorare anche 24 ore al giorno. Allora usava così. Venivo dalla provincia, mi sono trasferita a Roma e poi a Milano. I miei erano tutti sacrifici che stavo facendo per lavorare. Ringraziavo perché qualcuno mi prendeva in considerazione. Ora i giovani hanno un approccio più sano, considerano il lavoro una parte della vita e cercano dei confini per dedicarsi anche ad altre passioni».
Alle aziende conviene assecondarli?
«Le aziende devono attrezzarsi per inserire persone con queste richieste. Se tu sei realizzato nella vita personale, sei anche più produttivo al lavoro».