TRA SPAZIO PRIVATO E PUBBLICO È SALTATA OGNI SEPARAZIONE CRONACA DI UN VIAGGIO IN TAXI
Sono le piccole cose a segnalare i grandi passaggi di epoca. Per esempio: il grado di cortesia dei tassisti. C’è stato un tempo felice in cui chiedevano al cliente il permesso di accendere la radio. Una dimostrazione di rispetto per l’ospite, l’offerta di condivisione di uno spazio destinato ad essere comune almeno per il tempo di una corsa. Poi sono arrivate le radio private, e nella Capitale ne è nato un genere locale (e vernacolare) che, parlando prevalentemente della Roma o della Lazio e però anche dei guai della città e di politica, ha costruito nel tempo una sorta di Weltanschauung del tassista romano, un suo modo d’essere tutto particolare (per dire, l’ultimo candidato della destra alla carica di sindaco è stato uno dei più noti tribuni di queste radio, Enrico Michetti). A quel punto, il permesso al cliente non l’hanno chiesto più. Per cui negli anni mi è toccato ascoltare, a un volume sufficientemente alto da impedirmi ogni altra attività cerebrale, dettagliate analisi sulle condizioni del polpaccio di un difensore mescolate a solitamente paranoiche elucubrazioni politiche, tipo come mozzare le mani ai borseggiatori o riportare in Africa tutti gli immigrati.
Niente di grave: alla fine mi piacciono sia il calcio che la politica, e si sa che i giornalisti si informano prevalentemente in taxi sull’umore del popolo, visto che altrove è difficile che lo incontrino.
I cellulari hanno però aggravato di molto la situazione. Nella vita precedente, quella in cui al telefono si parlava solo nell’intimità domestica o in un’apposita cabina, parlare in pubblico a voce alta era considerato un po’ scortese. Dunque quando comparvero i telefoni mobili anche in taxi gli autisti chiedevano prima se potevano rispondere a una chiamata mentre guidavano, nel timore che desse fastidio al passeggero. E a me sì, dà fastidio. Soprattutto per la distrazione nella guida che comporta, e che può danneggiare anche me.
Poi anche questa accortezza è svanita. Adesso, complici gli auricolari, mi capita di salire su vetture in cui ci metto un po’ a capire se l’autista si stia rivolgendo a me o all’amico con cui continua a conversare anche mentre gli do l’indirizzo dove portarmi. Meno male che hanno inventato i monopattini elettrici…
Intendiamoci: non è che c’è l’ho con i tassisti, li sto solo usando come esempio di qualcosa di più grande. E cioè la progressiva erosione della separazione tra spazio privato, dove rendiamo conto solo a noi stessi, e spazio pubblico, dove saremmo tenuti a considerare la presenza di altri, estranei cui spettano i nostri stessi diritti.
Non so quando sia crollato questo muro che differenziava i nostri comportamenti tra privato e pubblico secondo una scala di gradi di civiltà. Forse quando gli stilisti hanno accettato che si uscisse per strada in tuta e infradito o con i mollettoni nei capelli? So solo che una volta sugli autobus c’era un cartello che diceva: «Vietato parlare al conducente», e in piccolo riportava le sanzioni amministrative previste dal codice in caso di violazione.
PRIMA GLI AUTISTI CHIEDEVANO IL PERMESSO DI TELEFONARE, CONSAPEVOLI CHE AVREMMO ABITATO UN’AREA TEMPORANEAMENTE COMUNE