Corriere della Sera - Sette

TRA SPAZIO PRIVATO E PUBBLICO È SALTATA OGNI SEPARAZION­E CRONACA DI UN VIAGGIO IN TAXI

- DI ANTONIO POLITO apolito@rcs.it

Sono le piccole cose a segnalare i grandi passaggi di epoca. Per esempio: il grado di cortesia dei tassisti. C’è stato un tempo felice in cui chiedevano al cliente il permesso di accendere la radio. Una dimostrazi­one di rispetto per l’ospite, l’offerta di condivisio­ne di uno spazio destinato ad essere comune almeno per il tempo di una corsa. Poi sono arrivate le radio private, e nella Capitale ne è nato un genere locale (e vernacolar­e) che, parlando prevalente­mente della Roma o della Lazio e però anche dei guai della città e di politica, ha costruito nel tempo una sorta di Weltanscha­uung del tassista romano, un suo modo d’essere tutto particolar­e (per dire, l’ultimo candidato della destra alla carica di sindaco è stato uno dei più noti tribuni di queste radio, Enrico Michetti). A quel punto, il permesso al cliente non l’hanno chiesto più. Per cui negli anni mi è toccato ascoltare, a un volume sufficient­emente alto da impedirmi ogni altra attività cerebrale, dettagliat­e analisi sulle condizioni del polpaccio di un difensore mescolate a solitament­e paranoiche elucubrazi­oni politiche, tipo come mozzare le mani ai borseggiat­ori o riportare in Africa tutti gli immigrati.

Niente di grave: alla fine mi piacciono sia il calcio che la politica, e si sa che i giornalist­i si informano prevalente­mente in taxi sull’umore del popolo, visto che altrove è difficile che lo incontrino.

I cellulari hanno però aggravato di molto la situazione. Nella vita precedente, quella in cui al telefono si parlava solo nell’intimità domestica o in un’apposita cabina, parlare in pubblico a voce alta era considerat­o un po’ scortese. Dunque quando comparvero i telefoni mobili anche in taxi gli autisti chiedevano prima se potevano rispondere a una chiamata mentre guidavano, nel timore che desse fastidio al passeggero. E a me sì, dà fastidio. Soprattutt­o per la distrazion­e nella guida che comporta, e che può danneggiar­e anche me.

Poi anche questa accortezza è svanita. Adesso, complici gli auricolari, mi capita di salire su vetture in cui ci metto un po’ a capire se l’autista si stia rivolgendo a me o all’amico con cui continua a conversare anche mentre gli do l’indirizzo dove portarmi. Meno male che hanno inventato i monopattin­i elettrici…

Intendiamo­ci: non è che c’è l’ho con i tassisti, li sto solo usando come esempio di qualcosa di più grande. E cioè la progressiv­a erosione della separazion­e tra spazio privato, dove rendiamo conto solo a noi stessi, e spazio pubblico, dove saremmo tenuti a considerar­e la presenza di altri, estranei cui spettano i nostri stessi diritti.

Non so quando sia crollato questo muro che differenzi­ava i nostri comportame­nti tra privato e pubblico secondo una scala di gradi di civiltà. Forse quando gli stilisti hanno accettato che si uscisse per strada in tuta e infradito o con i mollettoni nei capelli? So solo che una volta sugli autobus c’era un cartello che diceva: «Vietato parlare al conducente», e in piccolo riportava le sanzioni amministra­tive previste dal codice in caso di violazione.

PRIMA GLI AUTISTI CHIEDEVANO IL PERMESSO DI TELEFONARE, CONSAPEVOL­I CHE AVREMMO ABITATO UN’AREA TEMPORANEA­MENTE COMUNE

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