FRANZ KAFKA
«LA SUA SCRITTURA È UN’ASCIA CHE ROMPE IL MARE GHIACCIATO DENTRO DI NOI» IL PIÙ KAFKIANO DI TUTTI? FANTOZZI PAROLA DI MAURO COVACICH
Si scrive sempre a un solo lettore. O lettrice. Può esistere, può non esistere, si può inventare, incontrare per caso. Come capitò a Franz Kafka, pochi mesi prima di morire, quando con la fidata Dora passeggiava in un parco di Berlino, e incontrò una bambina in lacrime, che pareva inconsolabile. È disperata perché ha perso la sua bambola, ma Kafka le risponde che non è vero, non ha perso la bambola, la sua bambola è in viaggio e, a proposito, ha scritto una lettera per lei: il giorno dopo gliela porterà al parco, promesso. Così, giorno dopo giorno, Kafka porta alla bambina le lettere che finge di aver ricevuto dalla bambola, fino al momento del distacco.
Raccontando questo episodio, Mauro Covacich, in Kafka (La nave di Teseo) annota: «La vera sincerità non è raccontare una cosa aderente ai fatti, la vera sincerità, quando scrivi, è mettersi in gioco, sempre, fino all’ultimo giorno, totalmente». Per mettersi in gioco bisogna essere disposti a tutto, a venire fraintesi, a tradirsi, persino a mentire, con una bugia bianca, come quella detta fa Kafka alla bambina.
L’aneddoto della bambola sembra rispondere
a uno dei racconti più brevi e struggenti di Kafka, Il messaggio dell’imperatore, dove la vita di un uomo, un miserabile suddito, è tutta nell’attesa, poi speranza, poi sogno, di leggere il messaggio che l’imperatore in punto di morte ha scritto per lui. Quella lettera (spoiler, le cose in Kafka finiscono male, anzi, di male in peggio) non arriverà mai. Così come la porta di Davanti alla Legge non si aprirà mai per il contadino che è stato convocato. In quel parco di Berlino, invece, Kafka si è fatto Sherazade per consolare il suo piccolo sultano, la bambina, dal lutto, dalla perdita, dalla morte.
«Per tre settimane racconterà bugie a un’unica lettrice» sottolinea Covacich. «In fondo, a prescindere dalla diffusione del testo, si scrive sempre per una sola persona, per incastrarla e, al tempo stesso, per aiutarla a salvarsi».
Si scrive per incastrarsi. E salvarsi. L’aneddoto berlinese sembra una storia troppo bella per essere vera, ma di Dora, che lo riporta, possiamo fidarci, lei ha mantenuto la parola data a Kafka: ha bruciato i taccuini, come lui aveva chiesto (resta il mistero delle lettere che invece la Gestapo riuscì a recuperare), mentre l’amico Max Brod no, ha tradito il suo amico Franz. Per nostra fortuna, e per la gloria, postuma, di Kafka. Il grande cantore dell’assurdità della vita. Assurdità che è dissonanza tra l’essere umano e il mondo (absurdus in latino, ricorda Covacich, significa “dissonante”). Chi non ha vissuto almeno una volta nella vita una situazione kafkiana? Cioè l’assurda esperienza di soccombere di fronte qualcuno o qualcosa che ci sbatte in faccia la sua infrangibile arbitrarietà? La sua alienazione ci è molto familiare.
A cento anni dalla sua scomparsa è più presente che mai nel nostro immagino e nella nostra vita. Resta imprescindibile, per chi vuole scrivere. Per chi vuole leggere, per vivere. Quali libri? Quelli che ci colpiscono «come un pugno sul cranio: un
libro dev’essere l’ascia per il mare ghiacciato dentro di noi».
Questa frase di Kafka, tratta da una lettera all’amico Oscar, è appesa all’ingresso dello studio di Covacich, nella sua casa al Villaggio Olimpico di Roma. Poi, Covacich la spiega così: «La letteratura è bella se ti dice qualcosa che non volevi sentire, che avresti preferito non sentire mai. Un libro è bello se ti spinge dove fa più male. È uno strano piacere, non è facile accedervi. Ma se ti tocca, non saprai più farne a meno. Un libro che mi renda felice posso scrivermelo da solo, posso raccontarmi una storia che mi metta in pace con le mie debolezze e miei difetti, una storia autoindulgente. Ma questo libro non servirà a niente, sarà un libro inutile, e quindi brutto. Io ho bisogno di un libro che mi svegli con un pugno sul cranio».
Covacich nel suo nuovo libro snocciola il cuore ghiacciato dei testi di Kafka, un sentimento di sofferenza e resistenza che è di resiliente soccombenza. Alla legge che ti condanna senza processo nel Processo, al potere che nel Castello ti sbatte in faccia il suo sistema, alla famiglia che si rivela un nido di parassiti nella Metamorfosi, al peso del genitore della Lettera al padre saccheggiata dalla psicanalisi da decenni, attuale ancora oggi. Come è attualissima la superba rinuncia al cibo del Digiunatore che ricorda certi estremisti di oggi, mentre il mostriciattolo de Il cruccio del padre di famiglia, Odradek, è un corpo meccanico in transizione e fluido, mentre sadismo e masochismo si confondono nel castigo de Nella colonia penale e Il grande nuotatore celebra l’enigma della vittoria.
Kafka non ha bisogno di venire attualizzato, è universale. Ma quello che ha da dire alle nuove generazioni è urgente: «Vale per tutti noi, ma soprattutto per i giovani di oggi, bombardati da piattaforme pensate per l’intrattenimento, per trattenere la nostra attenzione, per blandirla, come un balsamo. Kafka non ci intrattiene, non ci imbambola, lui pensa che la scrittura sia una missione, che deve farti vedere qualcosa che non hai visto o non volevi vedere. Ecco il pugno sul cranio che scuote dal torpore dell’intrattenimento, è un antidoto all’autoindulgenza».
Un antidoto violento. Non alla vita, ma all’illusione che la vita abbia senso, illusione alimentata con tutte le storie confortevoli che ci circondano. Franz Kafka è l’essere umano che ha una colpa precedente al peccato originale: la colpa di essere nato, non di cogliere la differenza del bene e del male, che non ci sono. La vita è male.
Ma la colpa di Kafka non è essere un marito mancato, un figlio complessato, o un ebreo agnostico, un burocrate deluso – molto gustose le pagine di Kafka a Trieste, dove Covacich immagina un incontro con James Joyce, che in città insegnava inglese, tra gli altri a Italo Svevo (l’incontro lo immagina nel bordello preferito di Joyce, il Metro Cubo). «La colpa di Kafka» spiega Covacich «è usare il dolore del mondo per il piacere che prova a dar vita a quanto di più assurdo e abietto esca dalla sua mente, perché la scrittura è l’unica forma di resistenza. Kafka è un kamikaze della scrittura, non c’è possibilità di salvezza al di fuori della scrittura, nella quale bisogna mettersi in gioco».
Con questo spirito, pericolosamente giocoso, alla fine del libro, Covacich fa un elenco di kafkiani. Da Petronio e Gesù di Nazareth, che sono venuti prima di Kafka, a Oscar Pistorius e Giovanni Lindo Ferretti. «Io amo Kafka» replica a voce «ma non ho messo tra i kafkiani quelli che amo, ho messo personaggi equivoci. Pistorius ci racconta ha corso con i normodotati con delle leve che sembrano invenzioni da androide e poi si è reso colpevole di un omicidio terribile, che senso si può dare alla sua vita? E Lindo Ferretti: un personaggio fedele alla linea al massimo, un oltranzista comunista, poi è diventato leghista, alleva cavalli, ma parla con lo stesso tono ieratico...». Il più kafkiano degli italiani forse è Paolo Villaggio. Il tragicomico Fantozzi fa ridere chi conosce l’assurdità della vita aziendale, mentre agli altri sembra surreale. Un po’ come i racconti di Kafka che, raccontava Milan Kundera, per chi viveva nei regimi comunisti erano puro realismo, non certo fantastici racconti da incubo.