«DATO DA MANGIARE ALLE OCHE, MOGLIE SCOMPARSA» ECCO IL DIARIO DI UN ASSASSINO
Michele Buoninconti sta scontando 30 anni per l’omicidio della moglie, che sparì di casa una mattina di gennaio del 2014: fu trovata mesi dopo in un canale
Dare per provata la dinamica di un omicidio non significa disporre sempre della pistola fumante, della prova regina, come potrebbe essere una telecamera che filma l’azione. Una prova si può anche costruire con la considerazione di una pluralità di indizi – gravi, precisi e concordanti – e riscontrando l’assenza non solo di elementi di pari peso che puntino altrove, ma anche di una mera ipotesi alternativa ragionevole.
DIECI ANNI FA
Il caso Ceste nacque dieci anni fa, a fine gennaio, in una casa nelle campagne di Costigliole d’Asti. Trentasette anni, madre di quattro figli, Elena era sposata con Michele Buoninconti, un pompiere nato vicino a Salerno, e conduceva una vita ritirata. Molto. Forse troppo. Erano le otto del mattino del 24 gennaio; la donna non si sentiva bene e aveva chiesto al marito di accompagnare i figli a scuola. Lui aveva acconsentito. Al suo ritorno, lei non c’era più. Ne avrebbero ritrovato le ossa in ottobre. Per lo Stato italiano, Elena Ceste è stata ammazzata dal marito geloso; per il condannato e la sua difesa, è morta di freddo, dopo essersi denudata e allontanata in preda a una crisi psicotica, per la vergogna provata dallo stigma sociale derivante dalle sue storie sessuali clandestine, in un contesto di provincia piccolo e pettegolo.
A fare le pulci a una storia la cui sostanza è nota a molti è Faking it, prodotto per il canale Nove con la conduzione di Pino Rinaldi. Si parte proprio dalla chiamata al 118 che, col senno di poi, era stata giudicata sospetta, essendo stata preceduta da un avverbio di negazione: «Mica avete qualche denuncia di qualche persona scomparsa? Perché non trovo mia moglie a casa stamattina». L’operatore, correttamente, aveva invitato l’interlocutore a girare
la domanda ai carabinieri. Secondo la versione del marito, Michele Buoninconti era tornato a casa e non l’aveva trovata: allarmato, aveva telefonato non alle forze dell’ordine, nonostante il suo mestiere non lasciasse dubbi sulla condotta da tenere in casi simili, ma al 118 di Cuneo. A metà mattina, aveva poi portato una fotografia della moglie in caserma per aiutare le ricerche. Solo dopo, però, avrebbe aggiunto un particolare cruciale: uscendo di casa con in mano l’immagine da consegnare ai carabinieri, aveva trovato gli abiti che la moglie indossava nel letto quel giorno, ammucchiati vicino al cancello di casa. Buoninconti mostrò i vestiti agli inquirenti: nonostante, a suo dire, fossero rimasti per terra su un prato umido, erano asciutti e non parevano neppure indossati ma freschi di bucato. L’alibi fornito alle telecamere di Chi l’ha visto? era chiaro: era rincasato al massimo alle otto e trentacinque. Ma non era vero: un minuto prima dell’orario dichiarato, Buoninconti era stato filmato da una camera di sicurezza del centro del paese di Costigliole, che dista almeno dieci minuti di automobile da casa. Ai giornalisti piazzati sotto la villetta il marito della scomparsa non si negava mai. Però non parlava di ricerche, né di possibilità di trovarla viva, né di appelli diretti alla compagna di vita ma unicamente di quanto Elena Ceste fosse una brava casalinga e una brava mamma. «Era», diceva, al tempo imperfetto. Si rivolgeva spesso a lei, filmato dai cameraman, come «la persona» o «quella povera cristiana». Lessico ed espressioni, analizzate dall’esperto in comunicazione forense Alex Lecce, dalla psicoterapeuta e criminologa forense Margherita Carlini e da Diego Ingrassia, perito in analisi emotivo-comportamentale, indicano tuttavia altro, rispetto al “santino” che Buoninconti faceva di sé stesso e della moglie a favore di telecamere: distacco emotivo, disprezzo per chi conduceva le indagini, rabbia.
Le stesse indagini raccontarono, non a caso, un’altra storia: Elena non poteva andare dalla parrucchiera, i capelli glieli tagliava lui. Elena, se aveva bisogno del medico, doveva andarci in sua presenza e il dottore doveva rivolgersi a lui, non a lei. La sua automobile era coperta dalla responsabilità civile solo nei mesi scolastici, per evitare che la donna potesse spostarsi nel periodo estivo e per motivi personali. La disciplina inflitta alla moglie, come raccolto in una intercettazione, era stata pensata dal marito allo scopo di “raddrizzarla”, cioè di renderla obbediente. Il 24 gennaio 2014 Buoninconti, che annotava con precisione ogni evento quotidiano, aveva scritto sul suo diario: «Dato da mangiare alle oche, scomparsa mia moglie».
La fine di Elena Ceste iniziò con l’ingresso di un computer in casa, nella primavera del 2013. Iscritta ai social, ritrovò su Facebook alcuni compagni di scuola e raccolse nuovi amici: desiderava tornare a sentirsi donna e non solo una colf maltrattata. Con alcuni si prese qualche caffè, con altri andò in cerca della libertà repressa da vent’anni di un matrimonio più simile a una condanna in carcere.
IL RITROVAMENTO
Quando vennero ritrovati i suoi resti, mesi dopo, a un chilometro da casa, coperti dal fango di un rio, i patologi non poterono stabilire con decisione se la sua morte fosse stata violenta o naturale. Probabile asfissia, non certa. Ma il marito aveva mentito: all’ora della scomparsa, il suo telefono agganciò la cella di casa, poi quella in cui sarebbe stato trovato il cadavere, poi ancora casa. Era l’unico ad avere movente e opportunità di ucciderla. Chi ritiene la sentenza mancante del bollo dell’ “oltre ogni ragionevole dubbio”, inserito nel codice nel 2006, dovrebbe comprendere cosa intende la suprema corte quando statuisce che «la colpevolezza di Buoninconti è l’unica possibile lettura da dare allo svolgimento dei fatti». Ignorare i movimenti dell’accusato, soprassedere sulle troppe bugie, credere all’ipotesi di una donna che improvvisamente lascia il letto, si spoglia, cammina nuda in campagna in una gelida mattina piemontese di gennaio e va a rintanarsi in un fossato per morirci di stenti e assideramento.
Michele Buoninconti sta scontando trent’anni nel carcere di Alghero. Si dice innocente e punta alla revisione del processo. Per ora, tutto ciò che ha vinto è un ricorso per le condizioni di detenzione degradanti. I figli di Elena Ceste, altre vittime di questa storia, stanno crescendo con i nonni materni. Lo scorso anno sono state messe all’asta, a pochi euro, le automobili dei genitori, per contribuire ai loro studi.