Bobbio o dell’esperienza di un pensatore critico «Solo dal pessimismo nasce il cambiamento»
Intervista al professore torinese nei giorni in cui tra i palazzi del potere circola il suo nome per la presidenza della Repubblica. «Il mio è uno stato d’animo doloroso, ma non è disfattismo. Mai come oggi è stato difficile capire dove va il mondo». Poi
La casa di Norberto Bobbio è dalle parti della stazione di Porta Nuova. Si sale a un 5° piano. Il silenzio mi sembra straordinario, provo un senso di rara protezione. Bobbio sorride: «Ho fatto mettere i doppi vetri». La difesa contro i rumori del traffico è sicura. Ma l’altra difesa, quella contro il telefono che soltanto adesso sta finalmente zitto? Bobbio allarga le braccia, assapora il piacere d’una pausa.
Questi sono giorni strani che non prevedeva. Il suo nome è tra quelli dei candidati al Quirinale. Anche se fa parte del comitato centrale del partito socialista, è l’unico che non abbia alle spalle una carriera politica. Di Bobbio parlano i libri, gli articoli, le polemiche, le lezioni, e non l’annuario parlamentare. Ha insegnato filosofia del diritto, adesso ha la cattedra di scienza della politica. Il corso di quest’anno era dedicato alle teorie sulla formazione dello Stato moderno, da Machiavelli a Max Weber. Mi mostra tre grossi fascicoli: «Ecco le dispense: un lavoro perfetto di alcuni miei studenti. Io non credo allo sfacelo dell’università».
Tra qualche ora, sugli scaffali, sui ritratti di Croce, Einaudi e Antonicelli, sul tenue quadro di Casorati che rappresenta due volti di donna chini sulle pagine d’un libro, si accenderanno i riflettori, sarà snaturata la bella luce estiva che entra dalle finestre. La televisione ha chiesto di girare un filmato. Non si sa mai. Bisogna essere pronti a far vedere dove vive e come vive un possibile presidente della Repubblica.
Eppure, la solennità, il clamore, le liturgie del potere, qui hanno l’aria d’essere simboli remotissimi. Bobbio è uomo troppo libero e troppo sincero per non sentire verso di essi un vago timore. Preferisce raccontare com’è lui nelle giornate che fortunatamente sfuggono ai giornalisti, alle telecamere e alle cineprese, le piccole incertezze («Vado a Roma in aereo o in treno?»), la fatica di prendere decisioni, la coscienza di amare incomparabilmente di più la vita contemplativa della vita attiva. Che sollievo. Finalmente un maestro, ma di quelli veri, che ammette di essere «un perplesso» e non ha «la formula che mondi possa aprirti». Professor Bobbio, in un saggio del 1951 lei scrisse che «il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze».
Sono passati ventisette anni. Seminare dei dubbi è ancora il compito primario?
«Credo di sì perché vi sono troppe persone che hanno certezze senza fondamento. D’altra parte, il mondo è diventato sempre più complicato. Rovesciando Marx, direi che finora i non-filosofi, cioè i politici, hanno cambiato il mondo e ora si tratta di capirlo. Mai come oggi è stato difficile capire dove va il mondo. I problemi sono cosi complicati, cosi intrecciati l’uno all’altro... Ho motivo di credere che non ci sia nessuno in grado di avere delle certezze se non provvisorie».
Proprio un anno fa, di fronte «al cattivo uso che i potenti hanno fatto del loro potere, e gli impotenti della loro libertà», lei disse che «l’uomo di ragione» ha il dovere di essere pessimista, addirittura che il pessimismo è un dovere civile. Questo suo pessimismo continua?
«Il pessimismo è la mia seconda natura. Tendo a vedere gli
aspetti negativi anziché positivi delle cose. Ho il medesimo atteggiamento anche nei riguardi di me stesso».
Ma perché parlò di dovere civile?
«Era un paradosso nel senso che i detti comuni affermano proprio il contrario: la speranza ultima dea, dobbiamo avere fiducia... Io volevo dire che soltanto dal pessimismo può nascere un cambiamento. Il pessimismo non è disfattismo, non è augurarsi che le cose vadano peggio. Il pessimismo è uno stato d’animo doloroso».
Le voci che la riguardano, le indicazioni che si leggono nelle cronache politiche di questi giorni a proposito della presidenza della Repubblica, mi riportano a una frase che lei disse in un’intervista al Corriere di tre anni fa: l’intellettuale, l’uomo di cultura, vive «nella tentazione o di starsene da parte oppure di servire una sola parte. Lei rifiuta entrambe le posizioni?
«Ripeto quanto ho affermato lo scorso autunno al circolo Turati di Milano: l’intellettuale dev’essere indipendente ma non indifferente. È un tema che ho ripreso di recente su Rinascita. I possibili atteggiamenti dell’intellettuale di fronte alla politica sono tre: l’impegno totale, il disimpegno, l’impegno critico. Io cerco di esercitare l’impegno critico. Esso consiste nel ritenere che la sfera della cultura e quella della politica siano strettamente connesse ma non si sovrappongano, siano distinte ma non separate». Siamo al rapporto «politica e cultura», che è anche il titolo di un suo libro. Lei ha sempre sostenuto che la politica non è tutto e non può essere tutto, che la politica è potere, e l’intellettuale deve sempre restare il critico del potere. Perché l’intellettuale non può identificarsi con la politica?
«Perché la sfera della politica è pur sempre quella dei rapporti di dominio: fra una classe e l’altra, fra governanti e governati. Chi fa politica è un uomo di potere che tende al potere, che ha ambizione di essere potente e gode di questa potenza. Nel bene come nel male, il politico è sempre mosso dalla libido dominandi. L’intellettuale può cercar di influire, ma non in termini di potere: piuttosto in termini di persuasione. L’intellettuale può fare prediche, deve esercitare il raziocinio, cercare di sviscerare i problemi, e prima di arrivare a una conclusione, che comunque non sarà mai definitiva, esaminare tutti i pro e tutti i contro».
Attraverso i suoi saggi, i suoi articoli, i suoi interventi, si comprende che lei considera la confusione come un vero e proprio nemico. Il nostro Paese spesso dà l’impressione d’essere una torre di Babele. Che cosa si può fare contro la confusione?
«Usare gli strumenti, le tecniche della ragione, non le ispirazioni divine. Si tratta di saper raccogliere i dati dell’esperienza e poi usare la logica che serve a comporli in un sistema ordinato. Non c’è chiarezza intellettuale senza l’uso delle tecniche della ragione». Lei sostiene, tra altre definizioni, che la cultura è «il senso della complessità delle cose». Non si potrebbe estendere questo concetto alla politica?
«La politica è azione, è decisione, per quanto le cose siano complesse. In fondo, questo è il vero dramma dell’uomo politico: è costretto a prendere decisioni, e ogni decisione è sempre una semplificazione, una scelta tra due possibilità. Io non credo all’aut-aut. Quando uscì una rivista con questo titolo. Aut-aut, dissi che avrei preferito Et-et oppure Nec-nec».
All’epoca del rapimento di Moro lei scrisse: «Affermo con tremore che non bisogna trattare». Quel «tremore» le è rimasto o si è trasformato in pentimento?
«È una tragedia non dimenticabile. Il tremore è rimasto. Pentimento no, perché ritengo che non c’era niente da fare: avevano deciso di ucciderlo e l’avrebbero comunque ucciso».
Se pensa ai maestri e agli amici del suo passato, quale vorrebbe avere vicino in questi giorni per lei così insoliti?
«Il grande maestro è stato Croce, anche se non mi considero un crociano. Probabilmente però vorrei avere vicino Luigi Einaudi, con la sua lucidità, con la secchezza del suo ragionamento, con la sua totale mancanza di retorica. Sono piemontese, ho una vena di piemontesismo, anche se posso scherzare su di esso. Come diceva l’Alfieri, ho cercato di “spiemontizzarmi”. Non credo di esserci riuscito se penso ai miei gusti, alle mie simpatie, alle mie indignazioni».
Dal privato pantheon del professore non è ancora uscito il nome di Piero Gobetti. Bobbio, che è nato nel 1909, era studente quando Gobetti mori a Parigi, dov’era andato in esilio «non per fare del libellismo, o della polemica spicciola come i granduchi spodestati di Russia». Di Gobetti, proprio alla notizia della morte, gli parlò per la prima volta un compagno di liceo, Leone Ginzburg. Fu allora che, nel fresco solco della vita, calò «un seme di dubbio e di scontentezza»?
Ricordo a Bobbio una celebre frase di Gobetti: «La lotta è il grande motore della storia». Per chi, per che cosa, si deve lottare adesso? La risposta è immediata: «La lotta essenziale è la difesa della democrazia». Il professore fa una pausa e aggiunge, dettando lentamente parola per parola: «Ma attenzione. Non c’è nulla di più difficile che difendere democraticamente la democrazia».
L’intervista è finita. Bobbio non ha bisogno di corazzieri per mandare messaggi. Noto che il telefono si è comportato con discrezione: due soli squilli.