Corriere della Sera - Sette

«SE NE ANDÒ CHE AVEVO 5 ANNI MA ORA STO RITROVANDO PAPÀ GIGI RIVA? SI È FIDATO DI ME»

L’interprete dell’agente Lello Esposito in Lolita Lobosco è tornato nella sua Sardegna; «A Cagliari sono uno di famiglia, m’hanno visto crescere e mi rispettano». «Luisa Ranieri è una profession­ista assurda, impari sempre»

- DI ELVIRA SERRA

uando era bambino Jacopo Cullin cosa sognava di fare da grande?

«L’archeologo». Perché?

«Mi piaceva scavare la terra».

Quello è il contadino. O, al limite, il necroforo.

«Ma no! Ora le spiego. A me piaceva scavare perché a scuola facevamo giardinagg­io e io a volte trovavo monetine, piccoli oggetti, cose così».

Dunque, era un fan di Indiana Jones!

«No, mai visto. Però vedevo tantissimi documentar­i».

Ho letto che da bambino si sentiva il capofamigl­ia.

«È vero. Mio padre è andato via di casa quando avevo 5 anni. Mio fratello stava entrando nell’adolescenz­a e aveva altre cose per la testa. Quindi diciamo che il maschio di casa ero diventato io».

Sua mamma lavorava?

«Sì, nella segreteria della direzione sanitaria di un ospedale. Da lei ho preso la sensibilit­à e la solarità».

E da suo padre?

«Mia madre dice la manualità e il romanticis­mo. Non l’ho vissuto molto, abbiamo cominciato a rivederci una decina di anni fa».

Non veniva ai suoi spettacoli?

«Mi ha raccontato di sì. Pagava il biglietto, si metteva in fondo e si commuoveva. Adesso stiamo cominciand­o a costruire un buon rapporto».

Tra pochi giorni parte la tournée a teatro: 8 date in Sardegna più tre a Bari, Torino e Firenze. Non teme di restare chiuso nel cliché del caratteris­ta sardo?

«Beh, proprio del sardo non direi. In Lolita Lobosco interpreto un pugliese: ho fatto un provino superando tanti altri attori locali. Ho pure ricevuto un premio! Il caratteris­ta è comunque un bel ruolo, ti permette, appunto, di caratteriz­zarlo molto. E poi c’è una bella intervista di Massimo Troisi in cui spiega che il problema sono gli altri, quando non si sforzano di capire lui che parla il napoletano. Può valere anche per il sardo».

Le piace di più fare il regista o l’attore?

«A me fare il regista piace moltissimo, più forse dell’attore, perché mi piace lavorare con gli attori e riuscire a tirar fuori qualcosa che neanche loro pensavano di avere. Mi piace raccontare le storie attraverso le immagini, ma non riuscirei a gira

re qualcosa che ha scritto qualcun altro». Se avesse la bacchetta magica, chi vorrebbe dirigere?

«Vabbé, così senza limiti? Meryl Streep o Emma Stone, che mi piace da morire. La verità è che con queste persone più che altro ti siedi, guardi e impari».

Però ha diretto Gigi Riva. Mi dice un suo ricordo personale?

«Ho girato un cortometra­ggio con lui per gli Special Olympics del 2013. In realtà avevo già fatto tutto, mancava solo lui, che ancora non sapeva cosa avevo in mente». E come è riuscito a superare la sua proverbial­e ritrosia?

«Gli ho fatto un’imboscata da Giacomo, suo ristorator­e di fiducia a Cagliari. Quando ci siamo ritrovati fuori, perché doveva fumare, ha visto che i passanti chiedevano le foto anche a me, non solo a lui, e che pure io ero molto tranquillo, come lui. Credo abbia deciso così, vedendomi molto normale, non artefatto. Si è fidato». Perché non c’era ai suoi funerali?

«Perché non stavo bene, avevo avuto un’influenza devastante. In tanti mi hanno chiesto di fare dichiarazi­oni, di partecipar­e a trasmissio­ni, di scrivere un ricordo. Ma conoscendo­lo, sapevo che avrebbe apprezzato più di tutto il silenzio. Ho scritto solo un post sui social, di getto, piangendo».

È nato l’11 aprile. Ariete.

«Sono nato il giorno di Pasqua. Il medico aveva suggerito a mia madre di chiamarmi Pasqualino».

Un bellissimo nome. Peccato averlo mancato.

«Sì, infatti. Mi ci vedevo bene in una pubblicità del latte in tv».

Qual è la cosa che l’ha divertita di più, tra tutte quelle che ha fatto?

«Tantissime. Però se devo sceglierne una, è stata il mio primo spettacolo davanti a cinquemila persone all’Anfiteatro romano di Cagliari. Credo sia durato tre ore, non volevo più scendere dal palco! Però la gente rimaneva, rideva. Dopo, con i musicisti siamo andati a mangiare una pizza al taglio sul marciapied­e. Una serata incredibil­e».

Cinquemila persone al primo spettacolo non capitano a tutti.

«Non era proprio il mio primo spettacolo. Sono partito con 100, poi 300, poi 500, poi 1.000. Graduale, ma molto veloce».

Si intitolava Sei in me: interpreta­va sei personaggi. Il primo, iconico, è il signor Tonino in pigiama.

«Era il padre del mio amico Roberto. Stavo partecipan­do a un concorso per cabarettis­ti emergenti, avevo 21 anni, e tra i personaggi c’era anche lui, con la sua voce inconfondi­bile. Arrivo in finale, tesissimo, e tra il pubblico c’era pure il signor Tonino, che aveva portato gli amici a fare il tifo. Loro, morti dalle risate. C’erano 120 spettatori e io ho vinto con 116 voti: temo di non avere avuto quello del signor Tonino...». L’abbiamo rivista da poco in television­e nei panni di Lello Esposito, l’agente che lavora con Lolita Lobosco, famigerato per il caffè cattivissi­mo.

«Il mio personaggi­o è cresciuto molto, anno dopo anno: nell’ultima stagione ha fatto un monologo molto toccante. E comunque io il caffè lo faccio buonissimo, anche se ora basta premere un pulsante». Com’è lavorare con Luisa Ranieri?

«Veramente facile, perché è una profession­ista assurda, molto profession­ale, è una da cui impari mentre ci lavori».

Una cosa che ha imparato da lei?

«A gestire le energie durante le riprese. Che è il contrario di essere poco generosi. Nei piani larghi, dove sei piccolino, è inutile che dai il massimo. Mentre, come fa Luisa, quando serve devi saper caricarti in 3 secondi da zero a 100, come una Ferrari».

Le piace Lello?

«Gli sono molto grato perché è un personaggi­o divertente che fa ridere la gente, porta leggerezza nelle case degli italiani. È nelle mie corde».

Ha mai pensato di mollare?

«Sì, quando ero a Roma. Stavo studiando in una scuola di recitazion­e, ma non passavo nemmeno un provino».

In L’Arbitro, con Stefano Accorsi, interpreta un calciatore argentino.

«Riguardand­olo, mi son detto che potevo migliorare l’accento e mi è dispiaciut­o». Ha vissuto anche a Parigi e a New York. Perché è tornato in Sardegna?

«Sono cambiate le mie priorità. Prima volevo esplorare, andare, capire, conoscere, confrontar­mi. Poi ho pensato: ok, ora voglio tornare a casa, vicino a mia madre e alla mia nipotina, di cui sono il padrino. A Cagliari sto benissimo, ho un rapporto stupendo con le persone, mi pare di essere uno di famiglia: mi salutano come fossi un parente, un fratello, un cugino, un nipote. Perché mi hanno visto crescere». Non sono mai invadenti?

«Per niente, sono molto rispettosi».

Il suo posto del cuore?

«Portu Maga, nella Costa Verde, qui in Sardegna. È molto selvaggio. E poi sono legato a Sant’Antioco, l’isola di Gabriele Cossu, che fa lo spettacolo con me a teatro. Era presidente di giuria nel concorso raccontato prima: quella sera stessa mi invitò a lavorare con lui. E sto ancora pagando gli interessi della sua mossa!». Ride.

Se le dico Benito Urgu? Un attore mito in Sardegna.

«Un mito vero! Abbiamo trascorso tantissime giornate insieme, seduti sulle seggioline davanti al caminetto a sbucciare mandarini e a dire stupidaggi­ni inenarrabi­li. Potrebbe essere mio nonno».

Da piccolo guardava Jerry Lewis.

«E anche Dean Martin, di Paolo Villaggio-Fantozzi, Alberto Sordi, Totò».

È fidanzato?

«Devo rispondere?».

Veda lei.

«Diciamo che in questo momento mi piacerebbe mettere su famiglia».

«NATO IL GIORNO DI PASQUA, HO RISCHIATO DI CHIAMARMI PASQUALINO. ADESSO MI PIACEREBBE METTERE SU FAMIGLIA»

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