SUONANO COME LORO, CANTANO COME LORO: LE “TRIBUTE BAND” DA ASCOLTARE A OCCHI CHIUSI COME QUESTA DEI GENESIS
Quattro ragazzi (che non erano ancora nati quando Peter Gabriel lasciò la formazione) e un papà: si chiamano The Watch e sono in tour in Europa. Siamo andati ad ascoltarli. E ci siamo emozionati... Dai Queen ai Pooh, il magico “ritorno al futuro” di grupp
Bisognerebbe chiudere gli occhi, quando sul palco ancora buio i musicisti si avvicinano agli strumenti. Chiudere gli occhi, non guardare, e lasciarsi semplicemente trasportare in una macchina del tempo musicale, per risentire i suoni, le melodie, gli arpeggi che ascoltavi e riascoltavi quando eri (ahimè) più giovane. Riconoscere quella canzone fin dalle prime note della tastiera, dal primo riff di batteria, dal primo accordo di chitarra. Da quella voce che ti avvolgeva, raccontando di battaglie in foreste incantate, di creature fantastiche, che cantava di storie in bilico tra riferimenti biblici e mitologia, che raccontava di alieni che sbarcavano sulla terra e con loro grande sorpresa la trovavano deserta. E tutto questo rigorosamente dal vivo, non attraverso vinili rovinati da troppi ascolti, o cd dal suono impersonale, o streaming dal suono compresso.
Poi, ascoltata fino all’ultima nota la prima canzone (il cui titolo, giusto per la cronaca, è Watcher of the Skies, brano composto da Tony Banks e Mike Rutherford mentre ammiravano il panorama dal tetto di un albergo di Napoli), riaprire gli occhi. E accorgersi che no, non sono i Genesis d’antan quelli che hanno appena cominciato a suonare sul palco davanti a una folla di fan tanto attempati quanto (insospettabilmente) adoranti, ma quattro sbarbatelli e un papà che li riproducono in fotocopia. Soprattutto lui, la chioccia del gruppo, che si destreggia con disinvoltura tra tamburello e flauto ma che quando canta sfodera la voce di un Peter Gabriel giovane. «Non è colpa mia, davvero, è un dono divino», si giustificherà poi con un po’ di pudore nel backstage. Perché se il «vero» cantante dei Genesis anni 70 è stato benedetto dagli dei della musica, avere una voce così somigliante all’originale non dev’essere poi tanto male, se di mestiere stai davanti a un microfono anche tu.
Premessa: una tribute band non si nega a nessuno. Se appena appena sei un cantante di successo, come minimo avrai decine e decine di simpatici complessini che gireranno le feste di paese suonando brani tuoi. Magari non sempre musicisti eccelsi, ma spesso imitatori pedissequi dell’originale: se coverizzano Vasco Rossi, giusto per restare in Italia, allora il cantante si avvicinerà barcollando al microfono, cappellino del Kom in testa, voce ar
SOPRATTUTTO LUI, LA CHIOCCIA DEL GRUPPO, AL MICROFONO SFODERA UNA VOCE DA PETER GIOVANE. «NON È COLPA MIA» QUASI SI GIUSTIFICA «È UN DONO DIVINO»
rocchita da tabacco e alcol. Se il tuo riferimento sono i Queen, nove su dieci il frontman avrà i baffi Castro clone e l’iconico (si dice così, no?) giubbotto giallo, quello del Magic Tour, e cara grazia che non si sia fatto rifare i denti come li aveva Freddie Mercury.
Poi ci sono quelli più bravi. I Pooh, per esempio, hanno riunito 25 (in lettere: venticinque) tribute band in studio e sotto la supervisione e la produzione di Red Canzian hanno fatto loro incidere un album doppio con cover e rarità della band d’ispirazione. Alcune formazioni, in realtà, arrivano addirittura ad avere quella che si chiama official tribute band: i Queen di cui sopra, per esempio, mandano in giro per il mondo i Queen Extravaganza, musicisti selezionati direttamente da loro. Ma se sei fan dei Genesis, allora le cose cambiano.
I Genesis, per quei pochi che non lo sapessero, si dividono in due ere geo
I POOH HANNO RIUNITO 25 TRIBUTE BAND. HANNO FATTO LORO INCIDERE UN ALBUM DOPPIO, CON COVER E RARITÀ DELLA FORMAZIONE ORIGINALE
logiche: i Genesis a.G. e d.G. Avanti Gabriel e dopo Gabriel. E i fan stessi tendono a dividersi in due grandi categorie: la categoria degli a.G., che approva solo la produzione dal 1967 al 1975 e che guarda gli appartenenti alla categoria dei d.G. come solo uno studente del Classico guarderebbe qualsiasi altro liceale. Con sufficienza. I fan a.G. sono esigenti all’inverosimile, vogliono ascoltare «quella musica là» ma senza sbavature, senza errori. E i musicisti sanno quanto la musica dei Genesis prima maniera sia difficile de riprodurre in studio, immaginarsi dal vivo.
Watcher of the Skies, il primo brano ascoltato a occhi chiusi e orecchie spalancate, è datato 15 settembre 1972. Sul palco il tastierista Valerio De Vittorio, classe 1984, il bassista Mattia Rossetti (1994), il batterista Francesco Vaccarezza (1998), il chitarrista Andrea Giustiniani (1999): quando il più vecchio dei quattro nasceva, Peter Gabriel aveva già lasciato i Genesis da otto anni. E poi c’è l’anziano del gruppo, Simone Rossetti, papà di Mattia, quello con la voce «à la
Gabriel». Classe 1971: ha la stessa età di Nursery Crime, il terzo album pubblicato dai Genesis. Si chiamano «The Watch» (e la citazione dell’«Osservatore dei cieli» con cui aprono il concerto è del tutto voluta).
Hanno uno zoccolo durissimo di fan (perché esistono anche i fan delle tribute band, questa è meglio di quella, quella suona la tal canzone meglio di quell’altra, e così via) e una credibilità ormai acclarata. Il milanesissimo Teatro Carcano da cui è partito il loro tour è sold out — e sono pur sempre mille posti — così come lo sono le sale in cui si esibiranno da qui a fine anno, in Germania, Belgio, Francia, Olanda, Gran Bretagna. Steve Hackett, il chitarrista dei Genesis a.G., li incoraggia con un messaggio diffuso dall’amplificazione prima del concerto. E loro, «The Watch», suonano proprio come quei Genesis là.
Bisogna fare un giro tra il pubblico, per capire. «Pensa, io ho i vinili e me li ascolto ancora». «Bravi, eh? Sembrano il disco». «Io i Genesis con Peter Gabriel li ho visti tre volte, a Genova, a Torino, a Pesaro. Per questo mi emoziono ascoltando questi ragazzi».
Hanno tutti un passato alle spalle, capelli grigi quando ci sono ancora, e la voglia di togliersi di dosso qualche anno riascoltando le canzoni della gioventù. «Sì, in Italia il nostro pubblico è abbastanza agé, ma in Germania e in Olanda, per esempio, è molto più giovane» si giustificano i ragazzi nel backstage. Ma fa comunque strano vedere ragazzi dai 25 ai 40 anni eseguire canzoni che di anni ne hanno addirittura 54, no? «Non così strano, è musica bella, e basta. Ed è stato papà a trasmettermi questa passione» racconta Mattia Rossetti. «Siamo tutti musicisti di professione, turnisti, insegnanti. Abbiamo suonato cose nostre, sette album, poi abbiamo cominciato a usare i Genesis per veicolare la nostra musica e alla fine abbiamo scoperto che funzioniamo anche così. E con gli strumenti di oggi riusciamo a riprodurre suoni del disco che nemmeno i Genesis dal vivo riuscivano a ripetere». E la differenza d’età? «Mah, se ci pensiamo, alla fine abbiamo l’età dei Genesis quando suonavano queste canzoni…».
Passioni tramandate. Quando verso la fine dello show Rossetti padre e figlio cantano insieme More Fool Me (all’epoca erano Gabriel e Phil Collins a farlo), tutto si compie. Il tributo di due generazioni a una musica che non ha tempo. Da ascoltare a occhi chiusi.
MATTIA, 30 ANNI: «CON GLI STRUMENTI DI OGGI RIUSCIAMO A RIPRODURRE SUONI DEL DISCO CHE NEMMENO I GENESIS DAL VIVO RIUSCIVANO A RIPETERE»