GLI ALLEATI RILUTTANTI
Potranno mai Matteo Renzi e Angelino Alfano essere buoni alleati di governo collaborando lealmente per realizzarne il programma? La cruda realtà della politica, per sua natura così legata alla logica degli interessi e ai rapporti di forza, induce a rispondere con un caritatevole forse che tende ad avere però il suono di un no reciso. Oggi i due non possono che procedere insieme, ma da domani tutto o quasi comincerà molto probabilmente a spingerli su strade opposte.
Un Renzi al governo da solo, infatti — ipotetico vincitore di elezioni che gli avessero dato la maggioranza assoluta, grazie anche a voti non provenienti dal suo schieramento — un tale Renzi avrebbe sì potuto dimenticarsi del Partito democratico e fare, dove necessario, una politica anche niente affatto di sinistra. Privo invece di una vittoria elettorale alle spalle, egli è condannato ad essere, bene o male, solo il capo del Pd. Paradossalmente ma non troppo, proprio l’alleanza con il centrodestra gli toglie spazio su questo versante, e lo obbliga a stare a sinistra, a occupare uno spazio che tenga conto di quella che attualmente è la sua sola base di consenso. Una base peraltro — intendo il Pd — che ha mostrato di non amarlo troppo, e che di certo è pronta a prenderne le distanze non appena la sua azione non dovesse essere pari alle attese. Come credere infatti che il trattamento subito da Letta non abbia ormai il valore di un precedente?
Inversamente analoga appare la situazione di Alfano. Con l’aggravante che mentre bene o male il Pd esiste, e Renzi ci deve sì fare i conti, ma ci può anche in qualche modo contare, Alfano, invece, ha dietro di sé solo il vuoto. Nessun consenso elettorale, nessuna apprezzabile filiera di poteri forti, nessun partito: il suo è l’arduo tentativo da parte di un segmento moderato-cattolico di trovare spazio fuori dalla Destra, in un Centro che da vent’anni però non esiste più. Proprio a causa di questa scarsa consistenza politica Alfano, dunque, ha innanzi tutto una necessità: non apparire un inutile satellite del Pd. Per riuscirci, più che l’essere tentato dal fare, è probabile che egli s’impegni nell’impedire che si faccia. E cioè che Renzi vada a sinistra più di tanto, che s’intesti troppe iniziative con una leadership troppo personale, che si atteggi troppo a eroe dei tempi nuovi. Anche questo, come si vede, non è un buon viatico per il governo nascituro.
Il fatto è che la virtuale scomparsa/destrutturazione del Centro verificatasi nel 1994 nel sistema politico italiano ha reso in realtà impossibile qualunque effettiva alleanza governativa di centrodestra come di centrosinistra. Le «larghe intese» varate alla fine del 2011 ne sono state solo un surrogato emergenziale. Il quale poteva funzionare ma esclusivamente a patto di prendere pochi provvedimenti economici in quel momento urgentissimi e di varare un paio di riforme decisive: e infatti per altre cose quella maggioranza ha fatto poco con Monti, e altrettanto poco con Letta, mancando di fare, tra l’altro, proprio la più importante delle riforme di cui sopra, vale a dire una nuova legge elettorale.
Da domani una base parlamentare similmente eterogenea, ma in certo senso più debole perché più debole e insicura di sé sarà la componente di destra alfaniana, sosterrà il nuovo governo. La domanda cruciale è se basterà la personalità di Matteo Renzi, l’unica cosa che essa ha in più rispetto al passato (con la speranza che basti), a fare la differenza.