Quel palco resta il sogno della provincia affamata di futuro Il Festival può durare nel tempo perché ha il potere di uno specchio in cui vedere che cosa diventiamo
uando mi è stato proposto di far parte della Giuria di Qualità del Festival di Sanremo, stavo camminando sotto un porticato di Bologna. Mi sono fermata: sorpresa, incredula. Poi, riponendo il cellulare in borsa, ho pensato che i personaggi letterari — quelli che crei tu con le parole, che vivono solo dentro i libri — anche se sono immaginari, in realtà, in qualche misura diabolica, esistono davvero. Sì, perché Marina Bellezza, la mia tirannica protagonista, si sarebbe venduta l’anima pur di solcare il palco dell’Ariston e vincere Sanremo. Lei, figlia tradita dalla sua famiglia e dall’Italia, affamata di futuro e di rivalsa, nata nel 1990, ignara di come fosse il mondo prima dell’avvento di Berlusconi e degli sms, ha sempre pensato che il Festival fosse il suo personalissimo risarci- mento. Ho fatto la valigia e mi dirigo verso il suo sogno, lo realizzerò per lei, anche se in platea e non in gara. Ricordo che l’anno scorso, mentre raggiungevo la metà del romanzo, a vincere il Festival era Marco Mengoni con L’essenziale: un ritornello — «Mentre il mondo cade a pezzi / io compongo nuovi spazi e desideri» — che si addice molto ai miei personaggi, e a tutta la mia generazione. Per ora non so, e non immagino, cosa sia il Festival visto dall’interno. Conosco solo quello visto dalla provincia: dalle case, dai problemi di ogni giorno discussi a cena intorno alla tavola, sparecchiando, lavando i piatti. Perché continuiamo a guardarlo da 64 anni a questa parte?
Al di là della competizione, della curiosità per le canzoni e per lo spettacolo, ciò che nel Festival mi ha sempre affascinato è il fatto di essere trasmesso in eurovisione da una provincia per le altre province. E questa parola, per me, non ha nulla di negativo: anzi. La provincia siamo noi, con i nostri pregi e i nostri difetti, e Sanremo ci restituisce parte di quello che siamo. Per questo mi è piaciuto seguire il Pre-Festival di Pif: i cartelli stradali scritti giusti e quelli scritti sbagliati, il liceo cittadino che resiste, il lungomare ventoso, il corso poco frequentato nelle sere d’inverno, il Casinò.
Ricordo una sera della mia infanzia: nonna e io sedute al tavolino di un bar ad aspettare che il nonno tornasse da una partita di blackjack. Chissà se quella volta ha vinto o perso. Chissà se oggi ce la faremo, oppure no. Il Festival è occasione di leggerezza, di svago, eppure non è mai solo questo. La sua capacità di durare nel tempo forse ha proprio a che vedere con il suo potere di specchio dove tutti andiamo ad affacciarci — chi lo ama e chi no — per controllare cosa stiamo diventando, come siamo diventati. Ci appartengono realtà e metafora dei vagoni in bilico sulla ferrovia che conduce dall’Italia alla Francia, all’estero, all’altrove. Ci appartengono la bellezza dei paesaggi, dei centri storici, della cultura che ci rende grandi, e la bruttezza che li deturpa e ce li porta via. Ci appartengono l’energia inarrestabile di Raffaella Carrà, di Yusuf Cat Stevens e di Franca Valeri che hanno fatto storia, e l’energia dei miei coetanei che resistono alla corrente che sembra far franare tutto. Il Festival ci fa evadere dai problemi, e ce li ricorda. Almeno da qui, dalle nostre case.
Questa sera scoprirò cosa si respira in quel piccolo teatro diventato celebre nel mondo, aggirando il binario interrotto da Genova a Ventimiglia, portando con me queste parole di Mathias Énard: «se non facciamo uno sforzo verso i nostri sogni quelli spariscono, solo la speranza o la disperazione può cambiare il mondo». E questo per me rimane il punto. Da provincia a provincia, alla ricerca di un segnale, di un appiglio: nei testi delle canzoni, nelle voci, nelle esecuzioni dell’orchestra. Credo che gli spettatori, fuori e dentro l’Ariston, quest’anno vivano il Festival con questo gigantesco interrogativo. Il passaggio possibile dalla disperazione alla speranza, lo sforzo verso il sogno di qualcosa che si chiama futuro.