Resistere in una villa patrizia alla furia dei tedeschi e di Salò
In «Tu non nascesti audace» Stefano Jacini racconta con molta ironia una storia di amore e di guerra
Siamo nella campagna lombarda, negli ultimi mesi di guerra, la seconda, e al centro del racconto sta una grande villa patrizia, una delle molte che ancora oggi s’incontrano intorno a Milano, antiche villeggiature di fortunati cittadini. Vestiggia si chiama la magione di fantasia che l’autore — Stefano Jacini — ha scelto per ambientarvi l’azione del suo più recente romanzo, intitolato Tu non nascesti audace (Bompiani, pagine 209, 13,00) ed è piena di mobili e soprammobili che vi si trovano da generazioni,
In Federico, gentiluomo, è possibile riconoscere l’autore: musicologo, editore e scrittore di illustre casata
compreso un lampadario originario della Foresta Nera, fatto di corna di cervo intrecciate, dal quale si affaccia un nano ghignante che, talvolta, per le sole orecchie del padrone di casa, malignamente commenta la vita elargendo consigli, per la verità niente affatto balordi.
È, questo padrone, il protagonista del libro: un gentiluomo per bene lievemente stanco, lievemente distratto, senza più molte illusioni, non particolarmente coraggioso, tuttavia capace di mantenere una linea ferma pur nei mesi tormentati che precedono la fine della guerra e la ritirata dei tedeschi, a un passo dalla Repubblica di Salò che conta pericolosi fan anche intorno a palazzo Vestiggia. È lui cui si rivolgono tutti, gli sfollati che ospita in casa, spesso assai litigiosi, i maldestri congiurati dell’ultima ora, il prete sovversivo, i domestici di pessimo carattere più due belle ragazze, delle quali una, molto incostante, sembra avviarsi a diventare sua ex fidanzata, passando il testimone all’altra, ben più amabile, che si presuppone ne prenderà il posto.
Non è escluso che l’autore, musicologo, editore e scrittore di illustre casata milanese, abbia vagamente ritagliato Federico a sua immagine, e che le pagine del romanzo riecheggino non solo di geografie ma anche di vicende che gli sono in qualche modo note. L’accuratezza con cui descrive ambienti, atmosfere d avvenimenti, a questo fa pensare. Niente di autobiografico, perché le date non possono coincidere, però, molto di domestico, di familiare, sì.
Ma pur narrando in qualche modo del «suo», Stefano Jacini allarga lo sguardo e trova il modo — grazie alle annotazioni di un antico diario uscito dalla biblioteca di Vestiggia — di includere nel racconto di quei mesi difficili mezzo secolo di storia europea. Con qualche occhiata anche in avanti, visto che non manca, tra le comparse del romanzo, un attempato riccone appassionato di cene eleganti.
L’ironia regna saldamente nelle pagine, dalla prima all’ultima, anche quando Federico e la sua stravagante corte corrono seri rischi: per lui — più che per tutti gli altri — vige, infatti, la regola che nulla, nemmeno la morte, va preso davvero sul serio. Fortunatamente, però, un elegantissimo colpo di scena la scongiurerà all’ultimo e la colonna tedesca che requisirà villa Vestiggia non troverà quel che di altamente scottante vi è nascosto nella ghiacciaia.