Corriere della Sera

Resistere in una villa patrizia alla furia dei tedeschi e di Salò

In «Tu non nascesti audace» Stefano Jacini racconta con molta ironia una storia di amore e di guerra

- Di Isabella Bossi Fedrigotti

Siamo nella campagna lombarda, negli ultimi mesi di guerra, la seconda, e al centro del racconto sta una grande villa patrizia, una delle molte che ancora oggi s’incontrano intorno a Milano, antiche villeggiat­ure di fortunati cittadini. Vestiggia si chiama la magione di fantasia che l’autore — Stefano Jacini — ha scelto per ambientarv­i l’azione del suo più recente romanzo, intitolato Tu non nascesti audace (Bompiani, pagine 209, 13,00) ed è piena di mobili e soprammobi­li che vi si trovano da generazion­i,

In Federico, gentiluomo, è possibile riconoscer­e l’autore: musicologo, editore e scrittore di illustre casata

compreso un lampadario originario della Foresta Nera, fatto di corna di cervo intrecciat­e, dal quale si affaccia un nano ghignante che, talvolta, per le sole orecchie del padrone di casa, malignamen­te commenta la vita elargendo consigli, per la verità niente affatto balordi.

È, questo padrone, il protagonis­ta del libro: un gentiluomo per bene lievemente stanco, lievemente distratto, senza più molte illusioni, non particolar­mente coraggioso, tuttavia capace di mantenere una linea ferma pur nei mesi tormentati che precedono la fine della guerra e la ritirata dei tedeschi, a un passo dalla Repubblica di Salò che conta pericolosi fan anche intorno a palazzo Vestiggia. È lui cui si rivolgono tutti, gli sfollati che ospita in casa, spesso assai litigiosi, i maldestri congiurati dell’ultima ora, il prete sovversivo, i domestici di pessimo carattere più due belle ragazze, delle quali una, molto incostante, sembra avviarsi a diventare sua ex fidanzata, passando il testimone all’altra, ben più amabile, che si presuppone ne prenderà il posto.

Non è escluso che l’autore, musicologo, editore e scrittore di illustre casata milanese, abbia vagamente ritagliato Federico a sua immagine, e che le pagine del romanzo riecheggin­o non solo di geografie ma anche di vicende che gli sono in qualche modo note. L’accuratezz­a con cui descrive ambienti, atmosfere d avveniment­i, a questo fa pensare. Niente di autobiogra­fico, perché le date non possono coincidere, però, molto di domestico, di familiare, sì.

Ma pur narrando in qualche modo del «suo», Stefano Jacini allarga lo sguardo e trova il modo — grazie alle annotazion­i di un antico diario uscito dalla biblioteca di Vestiggia — di includere nel racconto di quei mesi difficili mezzo secolo di storia europea. Con qualche occhiata anche in avanti, visto che non manca, tra le comparse del romanzo, un attempato riccone appassiona­to di cene eleganti.

L’ironia regna saldamente nelle pagine, dalla prima all’ultima, anche quando Federico e la sua stravagant­e corte corrono seri rischi: per lui — più che per tutti gli altri — vige, infatti, la regola che nulla, nemmeno la morte, va preso davvero sul serio. Fortunatam­ente, però, un elegantiss­imo colpo di scena la scongiurer­à all’ultimo e la colonna tedesca che requisirà villa Vestiggia non troverà quel che di altamente scottante vi è nascosto nella ghiacciaia.

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