Il teste chiave che preparava un dossier
Un manager aveva raccolto prove da presentare al Pd. La difesa di Incalza: manca la prova dei soldi
FIRENZE S’inizia con il «dominus», il «principe dei burocrati», l’uomo che tutto muoveva e tutto decideva. Ercole Incalza, già capo della struttura tecnica di missione del ministro delle Infrastrutture, sarà interrogato oggi dal gip fiorentino nel carcere di Regina Coeli a Roma. Poi toccherà nei prossimi giorni a Stefano Perotti, il «dottor 25 miliardi» (carcere di Sollicciano) e agli altri due imprenditori, Francesco Cavallo e Sandro Pacella, che sono agli arresti domiciliari. I loro avvocati stanno valutando l’ipotesi di ricorrere al tribunale del Riesame per chiederne la scarcerazione, ma potrebbero decidere di non avanzare l’istanza perché l’ordinanza di custodia cautelare scade tra un mese.
S’intravede invece qualche strategia difensiva. Il legale di Incalza, Titta Madia, ha annunciato che nei prossimi giorni metterà in dubbio la competenza territoriale della procura di Firenze. «È un processo di corruzione nel quale manca la materia prima, i soldi», ha poi sottolineato Titta Madia anticipando che il suo assistito risponderà al giudice perché «non ha nulla da nascondere».
Ma c’è un altro nome finito tra i 51 indagati che per gli investigatori potrebbe diventare decisivo nelle indagini. È l’ex presidente di Italferr, Giulio Burchi. Durante alcune intercettazione critica pesantemente il «sistema» degli appalti «una delle vergogne grandi di questo Paese» perché è stata «depotenziata la funzione di controllo dello Stato» e auspicando che «la pulizia avviata dal governo Renzi raggiunga anche il ministro delle Infrastrutture» racconta che sta preparando un dossier da consegnare a Debora Serracchiani per fermare il «Sistema».
Un sistema che gli imprenditori coinvolti conoscevano e accettavano, anche se non sono pochi quelli che avrebbero voluto denunciarlo. Un muro di omertà che, secondo gli investigatori, in queste ore sta crollando con nuovi personaggi disposti a raccontare la rete e i nuovi attori della corruzione e del malaffare.
Già i nomi. Nelle carte ce ne sono molti, anche non indagati. Quello, per esempio, di Massimo Romolini, l’ispettore della Finanza in servizio presso la segreteria del viceministro Riccardo Nencini. In una telefonata intercettata dai carabinieri Sandro Pacella, uno degli arrestati, gli domanda se fosse stato a palazzo di giustizia («Volevo sapere com’era andata... se eri andato in procura...»). Romolini risponde di non esserci stato, ma che lo avrebbe fatto il giorno dopo e avrebbe acquisito notizie «di quella questione». Ieri Romolini ha spiegato che la procura in oggetto non era quella della Repubblica ma quella federale della Federazione italiana gioco calcio «della quale io e Pacella facciamo parte come collaboratori». Insomma, solo un equivoco.
I carabinieri stanno anche indagando sulla morte (presunto suicidio) di un sacerdote genovese, Giacomo Vigo, trovato cadavere nel porto di Livorno. La sua scheda telefonica fu utilizzata dal cugino, l’ingegnere genovese e docente universitario Giorgio Mor, cognato dell’imprenditore Stefano Perotti, e anche lui indagato. Mori si sarebbe interessato del figlio del ministro Maurizio Lupi. Che in un colloquio telefonico, Burchi rammenta come il neolaureato assunto da Perotti. «Sai come si chiama di cognome?... Lupi... ma che strana la vita eh!... e chissà di chi è figlio?... ti ci lascio pensare da solo».