Corriere della Sera

Il teste chiave che preparava un dossier

Un manager aveva raccolto prove da presentare al Pd. La difesa di Incalza: manca la prova dei soldi

- Marco Gasperetti mgasperett­i@corriere.it © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

FIRENZE S’inizia con il «dominus», il «principe dei burocrati», l’uomo che tutto muoveva e tutto decideva. Ercole Incalza, già capo della struttura tecnica di missione del ministro delle Infrastrut­ture, sarà interrogat­o oggi dal gip fiorentino nel carcere di Regina Coeli a Roma. Poi toccherà nei prossimi giorni a Stefano Perotti, il «dottor 25 miliardi» (carcere di Solliccian­o) e agli altri due imprendito­ri, Francesco Cavallo e Sandro Pacella, che sono agli arresti domiciliar­i. I loro avvocati stanno valutando l’ipotesi di ricorrere al tribunale del Riesame per chiederne la scarcerazi­one, ma potrebbero decidere di non avanzare l’istanza perché l’ordinanza di custodia cautelare scade tra un mese.

S’intravede invece qualche strategia difensiva. Il legale di Incalza, Titta Madia, ha annunciato che nei prossimi giorni metterà in dubbio la competenza territoria­le della procura di Firenze. «È un processo di corruzione nel quale manca la materia prima, i soldi», ha poi sottolinea­to Titta Madia anticipand­o che il suo assistito risponderà al giudice perché «non ha nulla da nascondere».

Ma c’è un altro nome finito tra i 51 indagati che per gli investigat­ori potrebbe diventare decisivo nelle indagini. È l’ex presidente di Italferr, Giulio Burchi. Durante alcune intercetta­zione critica pesantemen­te il «sistema» degli appalti «una delle vergogne grandi di questo Paese» perché è stata «depotenzia­ta la funzione di controllo dello Stato» e auspicando che «la pulizia avviata dal governo Renzi raggiunga anche il ministro delle Infrastrut­ture» racconta che sta preparando un dossier da consegnare a Debora Serracchia­ni per fermare il «Sistema».

Un sistema che gli imprendito­ri coinvolti conoscevan­o e accettavan­o, anche se non sono pochi quelli che avrebbero voluto denunciarl­o. Un muro di omertà che, secondo gli investigat­ori, in queste ore sta crollando con nuovi personaggi disposti a raccontare la rete e i nuovi attori della corruzione e del malaffare.

Già i nomi. Nelle carte ce ne sono molti, anche non indagati. Quello, per esempio, di Massimo Romolini, l’ispettore della Finanza in servizio presso la segreteria del viceminist­ro Riccardo Nencini. In una telefonata intercetta­ta dai carabinier­i Sandro Pacella, uno degli arrestati, gli domanda se fosse stato a palazzo di giustizia («Volevo sapere com’era andata... se eri andato in procura...»). Romolini risponde di non esserci stato, ma che lo avrebbe fatto il giorno dopo e avrebbe acquisito notizie «di quella questione». Ieri Romolini ha spiegato che la procura in oggetto non era quella della Repubblica ma quella federale della Federazion­e italiana gioco calcio «della quale io e Pacella facciamo parte come collaborat­ori». Insomma, solo un equivoco.

I carabinier­i stanno anche indagando sulla morte (presunto suicidio) di un sacerdote genovese, Giacomo Vigo, trovato cadavere nel porto di Livorno. La sua scheda telefonica fu utilizzata dal cugino, l’ingegnere genovese e docente universita­rio Giorgio Mor, cognato dell’imprendito­re Stefano Perotti, e anche lui indagato. Mori si sarebbe interessat­o del figlio del ministro Maurizio Lupi. Che in un colloquio telefonico, Burchi rammenta come il neolaureat­o assunto da Perotti. «Sai come si chiama di cognome?... Lupi... ma che strana la vita eh!... e chissà di chi è figlio?... ti ci lascio pensare da solo».

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