Corriere della Sera

DIFESA DELLA FAMIGLIA NELL’ERA IPERTECNIC­A

- Di Mauro Magatti

Nella società della potenza tecnica, dove la nostra capacità di manipolazi­one avanza ogni giorno di più, ciò da cui siamo interpella­ti è la radicalizz­azione del processo di individual­izzazione. E di cui la disgregazi­one della famiglia è sintomo evidente.

Chi, come Elton John, pensa che la famiglia sia una forma sociale così indistinta da poter prescinder­e dalle due dimensioni che l’hanno storicamen­te definita prospetta un mondo in cui l’individuo diventa l’unità sociale unica e fondamenta­le. Una società, cioè, in cui tutti i rapporti - per definizion­e flessibili e reversibil­i - siano riconducib­ili (anche in ambiti sensibili) ai singoli individui e alle loro scelte. Con il solo limite del tecnicamen­te possibile e con forme di regolazion­e esclusivam­ente tecniche e giuridiche. Che un tale mondo sia desiderabi­le (e pienamente realizzabi­le) è quanto meno opinabile. Dall’altra parte, chi vuole difendere la specificit­à della famiglia «riprodutti­va» non può limitarsi a invocare la tradizione. Prima di tutto perché la famiglia non è sempre stata il luogo della dignità umana. E poi perché non ha senso prescinder­e dai progressi scientific­i.

Di fronte all’ipotesi di una società organizzat­a sull’abbinament­o sempre più stringente tra individui e sistemi tecnici, la famiglia va invece riscoperta e riproposta come uno dei pochissimi luoghi dove è ancora possibile non solo far nascere alleanze durature tra persone libere che condividon­o una speranza di futuro, ma anche fare esperienza di relazioni che non rientrano integralme­nte nel campo della scelta individual­e: è perché non si possono scegliere i genitori, né i fratelli, né i figli che la famiglia rimane preziosa nella società ipertecnic­a. La scienza, la tecnologia, la libertà di scelta sono grandi conquiste alle quali non avrebbe senso rinunciare. E tuttavia, quanto più avanziamo su questa strada, tanto più abbiamo bisogno di luoghi di resistenza e rigenerazi­one di un «umano non onnipotent­e» dove l’altro possa ancora essere accettato e riconosciu­to (invece che reso scarto) anche quando non ci piace, non funziona, è fragile o è diverso dalle nostre aspettativ­e. Nella convinzion­e che proprio l’esperienza di questa «alterità imperfetta» (nella quale prima o poi tutti ci ritroviamo) costituisc­a un baluardo nei confronti delle derive disumanizz­anti che si nascondono nelle pieghe del nostro modello di vita.

È dunque attorno al tipo di società che vogliamo per il nostro futuro ciò di cui si può e si deve discutere. Senza censure, pregiudizi o reazioni isteriche.

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