Il medico ateo e il prete di strada: la fede diventa una commedia
Giallini, Gassmann e la storia di un ragazzo che vuole entrare in seminario
meno per il film) quando la storia ha messo le sue carte in tavola e il film dovrebbe concentrarsi sul confronto tra il padre ateo e malfidente e il prete generoso e altruista. A questo punto la sceneggiatura cambia pelle per confrontarsi con temi più seri, più complessi (o presunti tali) e il film perde in ritmo ma soprattutto in coerenza. Senza più gag o battute a reggere la storia, tutto finisce inevitabilmente per scivolare nel semplicismo se non nella superficialità: il personaggio del sacerdote non riesce mai a trasmettere le ragioni della propria vocazione o comunque della propria scelta di vita mentre quello del padre cede alla tentazione di tante commedie italiane recenti, sostituire il cinismo iniziale con un più confortevole e gratificante buonismo, iniziando una «conversione» che non ha nulla di religioso e molto di (auto)assolutorio.
Per spiegare le ragioni del suo passaggio dalla sceneggiatura alla regia, Falcone ha molto insistito sull’ambizione di «avere il controllo totale sul progetto». Come Billy Wilder anche lui sarebbe stanco di preparare un letto dove qualcun altro si accomoderebbe a fare l’amore. Spiegazione sacrosanta, ma qui è proprio la sceneggiatura a mostrare le fragilità più grandi, perché una volta fatti conoscere i vari personaggi, il film sembra incapace di guidarli verso un traguardo non scontato (francamente improbabile l’evoluzione ribellistica della moglie, troppo meccanica quella della figlia). E dispiace, perché l’idea di confrontare la commedia con un tema come quello della religiosità La storia di un padre (Giallini) che non accetta la scelta del figlio che vuole farsi prete da evitare interessante da non perdere
capolavoro era originale e spiazzante, soprattutto nel panorama desolato e desolante della recente produzione comica italiana. L’unico paragone possibile che viene in mente è con Per grazia ricevuta di Manfredi: anche lì c’era un ateo che combatteva con gli alfieri della religione e anche lì c’era un finale che rimetteva in gioco tutto con la «speranza» di un miracolo (di più non si può dire, ma chi vedrà il film capirà certamente). Nel film di Manfredi, però, non si provava mai la sensazione che certi personaggi o certe situazioni fossero stati creati solo per strappare una risata: tutto era coerente con il percorso del personaggio e la sua costruzione drammaturgica se non proprio psicologica. Risate comprese.
In Se Dio vuole, invece, l’apprezzamento per un soggetto non scontato e un’ambizione non corriva, finisce per essere vanificato dalla mancanza di coerenza e di approfondimento della sceneggiatura. Il che da parte di qualcuno che nasce sceneggiatore e si lamentava dei «tradimenti» degli altri registi, non è certo un peccato veniale.
L’ambizione del regista è quella di non seguire le solite vie della farsa Ci riesce all’inizio, poi prevale una lettura superficiale