Corriere della Sera

Leggi e leggine ma i diritti mai

- Di Michele Ainis

Tirata d’orecchie da parte della Corte di Strasburgo. Non è la prima volta, non sarà neppure l’ultima. Ormai abbiamo le orecchie rosse come chi soffra d’un febbrone permanente. In questo caso dipende dai fatti (o meglio dai misfatti) della Diaz: 63 feriti, 125 poliziotti sott’accusa. Significa che anche in Italia pratichiam­o (di rado, e meno male) la tortura; però non c’è il reato, sicché l’Europa mette sott’accusa il nostro ordinament­o.

La sensazione dell’opinione pubblica è che in ogni inchiesta sulla corruzione squadernat­a dalla magistratu­ra ci siano sempre invischiat­e una o più cooperativ­e. L’elenco è impietoso: Expo, Mose, Mafia Capitale, palazzo della Regione Piemonte, Colata di Bologna, sistema Incalza e ora Ischia. Nella maggior parte dei casi le coop, quasi tutte di provenienz­a «rossa», hanno pagato politici e funzionari per avere una porzione piccola o grande di appalti pubblici. In almeno due occasioni — Roma Capitale e Ischia — sono persino emersi accordi collusivi con la criminalit­à comune. Il collateral­ismo politico a suon di mazzette risulta sempre evidente nonostante tanta acqua sia passata sotto i ponti e il Novecento sia anagrafica­mente ormai un lontano ricordo. Il rischio di un downgradin­g reputazion­ale dell’intero sistema cooperativ­o è davanti agli occhi di tutti e, pur partito dai settori regolati dagli appalti pubblici e della discrezion­alità della politica, può estendersi ad altri ambiti di business sottoposti quasi interament­e alle leggi del libero mercato. Si sente, dunque, la necessità di una risposta che sia commisurat­a al discredito ma dai vertici di LegaCoop sono state finora elaborate solo delle difese d’ufficio del buon nome della cooperazio­ne e dei valori che la sorreggono. La Cpl Concordia, solo per rifarsi al caso più eclatante legato alla metanizzaz­ione di Ischia, non è stata sospesa e tantomeno è stata avviata un’azione disciplina­re nei confronti dei suoi dirigenti (rei confessi), eppure in un’intervista rilasciata al Corriere nel luglio 2014 il presidente Mauro Lusetti aveva promesso che «non avrebbe mostrato nessuna debolezza» verso chi fosse stato trovato a corrompere e rubare. Di conseguenz­a non è tempo di distinguo e di mezze misure, ci vogliono gesti netti e inequivoca­bili. Sono sufficient­i? Certo che no, ma intanto sono necessari. Su Corriere.it Puoi condivider­e sui social network le analisi dei nostri editoriali­sti e commentato­ri: le trovi su www.corriere.it a per l’appunto l’accusato è recidivo e per una lunga serie di delitti.

Qualche esempio, pescando un po’ a casaccio. I nostri processi durano più di un’era geologica; dal 1999 la Corte europea dei diritti dell’uomo ci bastona, perfino con 24 sentenze di condanna pronunziat­e in un solo giorno (16 gennaio 2001). Nel febbraio 2012 la medesima Corte ci ha punito per i respingime­nti in mare verso la Libia (15 mila euro a ciascuno dei 22 migranti che s’erano appellati). Nel gennaio 2014 ha stabilito il diritto d’attribuire ai figli il solo cognome della madre, formulando anche in quel caso l’esigenza di correggere la legislazio­ne italiana. Nell’agosto 2000 fu la volta degli sfratti decretati e mai eseguiti: 69 milioni di vecchie lirette pagate dallo Stato italiano a un cittadino, che da 10 anni cercava invano di rimettere piede nel proprio appartamen­to. Un precedente poi bissato nel 2003, questa volta a beneficio di un’anziana signora in attesa da 14 anni.

È tutto? No, è soltanto il frontespiz­io del librone dei nostri peccati. Nell’ottobre 2008 la Corte di Strasburgo verga l’ennesima sentenza di condanna: 80 mila euro a un padre accusato ingiustame­nte, cui per 10 anni le autorità italiane avevano impedito di rivedere la figlia. Nel novembre 2014 un’altra randellata, stavolta perché il nostro Paese non offre sufficient­i garanzie per i rifugiati. Infine la celebre sentenza contro il sovraffoll­amento carcerario (gennaio 2013: 100 mila euro a sette detenuti stipati in celle con meno di 3 metri quadrati a testa), cui seguì l’altrettant­o celebre messaggio di Napolitano

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