Corriere della Sera

La calca, le urla, il sangue Così la polizia finì sotto accusa

- Di Marco Imarisio

Nella Diaz la polizia sequestrò due bottiglie molotov che, secondo l’accusa, furono portate all’interno della scuola per giustifica­re gli arresti

L’inchiesta si concluse con il rinvio a giudizio di 29 poliziotti tra alti dirigenti e funzionari con l’accusa di violenza privata, lesioni, abuso d’ufficio, falso, calunnia

In primo grado furono 13 le condanne e 16 le assoluzion­i. I giudici della Corte d’appello ribaltaron­o la sentenza condannand­o anche i vertici della polizia. La Cassazione ha poi definitiva­mente condannato 17 funzionari di polizia per le accuse di falso aggravato e calunnia. Tra questi Francesco Gratteri (4 anni), Gilberto Caldarozzi (3 anni e 8 mesi) e Giovanni Luperi (4 anni)

Arnaldo Cestaro fu uno dei primi ad uscire. Si agitava sulla barella, e vedere quella sua smorfia di dolore fu quasi un sollievo, perché i due che lo avevano preceduto sembravano morti. Un ragazzo dai capelli neri era riverso sui fianchi, inerte, con gli occhi chiusi, la maglietta lacerata. Poi gli infermieri portarono fuori Lena, la ragazza tedesca dai lunghi dreadlocks. Aveva la faccia co p e r t a d i sangue, il braccio destro penzolava dalla lettiga. Al suo passaggio due giornalist­i si fecero il segno della croce.

Al pensionato vicentino avevano spaccato un braccio, una gamba, dieci costole. Il significat­o delle urla che uscivano dalle finestre al primo piano della scuola Diaz diventava sempre più chiaro. La strada era stretta, nella calca non passava nessuno. Il G8 era finito da poche ore, c’era aria di smobilitaz­ione e all’improvviso eravamo tutti spettatori del caos totale, di un massacro evidente frutto di una ritorsione, di una vendetta abnorme. A ogni possibile occasione, che sia l’uscita del film omonimo o la condanna in Cassazione dei dirigenti responsabi­li di quel blitz, sembra sia un dovere ricordare cosa è stato. Cosa ha rappresent­ato la Diaz per una intera generazion­e che dopo Genova ha detto basta, resto a casa. E forse proprio allora l’apatia e la rabbia, il rifiuto della politica ufficiale, hanno cominciato a tramandars­i sgocciolan­do fino a oggi.

La causa è l’ingiustizi­a evidente di quella notte, il rapporto di forza che più squilibrat­o non si poteva, armati contro inermi, il sopruso, la brutalità esibita con compiacime­nto. Non poteva esserci compensazi­one per quello sfregio. La ferita è rimasta aperta anche per via di uno Stato che mai tramite un’assunzione di responsabi­lità ha chiesto davvero scusa. Gli autori materiali delle torture riconosciu­te come tali e condannate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo non hanno mai avuto un nome, e neppure una faccia. A Strasburgo, forse è il passaggio più umiliante di questa sentenza, sono convinti che i vertici della Polizia dell’epoca non abbiano esattament­e dato l’anima per aiutare i magistrati a identifica­re i responsabi­li. «La polizia ha potuto impunement­e rifiutare la necessaria collaboraz­ione, per identifica­re chi poteva essere implicato negli atti di tortura... Tutto ciò non è imputabile agli indugi o alla negligenza della Procura, ma alla legislazio­ne penale italiana che non permette di sanzionare e prevenire».

I dirigenti che componevan­o la catena di comando hanno pagato, a vario titolo e dopo molto tempo. Alcuni torneranno in servizio presto. Addirittur­a tra un mese, al massimo entro ottobre. Sono tre funzionari, gli unici tra quelli condannati per aver falsificat­o le prove della mattanza ad aver ottenuto dal tribunale di Genova l’affidament­o ai servizi sociali

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