La calca, le urla, il sangue Così la polizia finì sotto accusa
Nella Diaz la polizia sequestrò due bottiglie molotov che, secondo l’accusa, furono portate all’interno della scuola per giustificare gli arresti
L’inchiesta si concluse con il rinvio a giudizio di 29 poliziotti tra alti dirigenti e funzionari con l’accusa di violenza privata, lesioni, abuso d’ufficio, falso, calunnia
In primo grado furono 13 le condanne e 16 le assoluzioni. I giudici della Corte d’appello ribaltarono la sentenza condannando anche i vertici della polizia. La Cassazione ha poi definitivamente condannato 17 funzionari di polizia per le accuse di falso aggravato e calunnia. Tra questi Francesco Gratteri (4 anni), Gilberto Caldarozzi (3 anni e 8 mesi) e Giovanni Luperi (4 anni)
Arnaldo Cestaro fu uno dei primi ad uscire. Si agitava sulla barella, e vedere quella sua smorfia di dolore fu quasi un sollievo, perché i due che lo avevano preceduto sembravano morti. Un ragazzo dai capelli neri era riverso sui fianchi, inerte, con gli occhi chiusi, la maglietta lacerata. Poi gli infermieri portarono fuori Lena, la ragazza tedesca dai lunghi dreadlocks. Aveva la faccia co p e r t a d i sangue, il braccio destro penzolava dalla lettiga. Al suo passaggio due giornalisti si fecero il segno della croce.
Al pensionato vicentino avevano spaccato un braccio, una gamba, dieci costole. Il significato delle urla che uscivano dalle finestre al primo piano della scuola Diaz diventava sempre più chiaro. La strada era stretta, nella calca non passava nessuno. Il G8 era finito da poche ore, c’era aria di smobilitazione e all’improvviso eravamo tutti spettatori del caos totale, di un massacro evidente frutto di una ritorsione, di una vendetta abnorme. A ogni possibile occasione, che sia l’uscita del film omonimo o la condanna in Cassazione dei dirigenti responsabili di quel blitz, sembra sia un dovere ricordare cosa è stato. Cosa ha rappresentato la Diaz per una intera generazione che dopo Genova ha detto basta, resto a casa. E forse proprio allora l’apatia e la rabbia, il rifiuto della politica ufficiale, hanno cominciato a tramandarsi sgocciolando fino a oggi.
La causa è l’ingiustizia evidente di quella notte, il rapporto di forza che più squilibrato non si poteva, armati contro inermi, il sopruso, la brutalità esibita con compiacimento. Non poteva esserci compensazione per quello sfregio. La ferita è rimasta aperta anche per via di uno Stato che mai tramite un’assunzione di responsabilità ha chiesto davvero scusa. Gli autori materiali delle torture riconosciute come tali e condannate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo non hanno mai avuto un nome, e neppure una faccia. A Strasburgo, forse è il passaggio più umiliante di questa sentenza, sono convinti che i vertici della Polizia dell’epoca non abbiano esattamente dato l’anima per aiutare i magistrati a identificare i responsabili. «La polizia ha potuto impunemente rifiutare la necessaria collaborazione, per identificare chi poteva essere implicato negli atti di tortura... Tutto ciò non è imputabile agli indugi o alla negligenza della Procura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare e prevenire».
I dirigenti che componevano la catena di comando hanno pagato, a vario titolo e dopo molto tempo. Alcuni torneranno in servizio presto. Addirittura tra un mese, al massimo entro ottobre. Sono tre funzionari, gli unici tra quelli condannati per aver falsificato le prove della mattanza ad aver ottenuto dal tribunale di Genova l’affidamento ai servizi sociali