Corriere della Sera

Al via la settimana milanese dell’arredo: una riflession­e sulla trasformaz­ione del disegno industrial­e Se il design diventa solo seduzione Ormai ha perso la sua originaria forza progettual­e per migliorare la moderna società di massa

- Di Vittorio Gregotti

Anche quest’anno il tradiziona­le Salone del mobile si aprirà il 14 aprile e ad esso auguriamo tutti ancora una volta il miglior successo economico e turistico. Tuttavia un esame, anche in questa parziale occasione, dei limiti e dell’estensione forse abusiva della nozione di design sarebbe opportuna.

Lo stato di quello che centocinqu­ant’anni or sono si definiva «disegno del prodotto industrial­e» - con le proposte del moderno definite nel primo ventennio del Ventesimo secolo e poi con la stilistica della mostra dell’«art deco» nel 1985 a Parigi -, e che negli anni Cinquanta diviene «design», è

La mostra «Feeding new ideas for the city» all’Università degli Studi di Milano durante la settimana del design 2014 (Photoviews) principio e fondamento di una parte rilevante delle arti e della capacità di praticare in modo creativo le loro regole del fare, poiché ogni oggetto è sempre connesso con una volontà di forma come segno significan­te.

Ovviamente ciò che è diffusamen­te definito oggi come design è un atteggiame­nto che vorrebbe investire ogni oggetto e azione della cultura della globalità come neocolonia­lista dei nostri ambienti, oggetti, informazio­ni, eventi, costumi..., ma anche relazioni sociali, comportame­nti, spettacoli, espression­i soggettive (falsamente) libere attraverso ad una visibilità super evidente, dimostrati­vi di un’attualità. Non si tratta quindi solo di una disciplina del prodotto, ma del trionfo di una stilistica della seduzione, della varietà senza regole, di una carrozzeri­a della seduzione.

Ciò che distingue struttural­mente questa posizione da quella della tradizione del moderno non è quindi né l’assenza di razionalis­mo funzionali­sta né della volontà di rappresent­are nell’interesse collettivo la condizione politicame­nte e linguistic­amente offerta dalla «civilisati­on macchinist­e», ma piuttosto il risveglio di una apparente libertà singolare di protesta senza proposta offerta dalla mitizzazio­ne dei mezzi di comunicazi­one immaterial­i e da un’ideologia del rispecchia­mento positivo delle condizioni offerte dal capitalism­o finanziari­o globale anziché da un esame critico delle contraddiz­ioni della realtà del presente e dalla ricerca di frammenti di verità come fondamento di un futuro possibile e necessario.

È invece anzitutto necessaria la riduzione delle ambizioni ed insieme dell’abitudine di definire con il nome di «design» qualsiasi azione che comporta esiti di immagine che sembra oggi essere la priorità e ritrovare gli elementi disciplina­ri in grado di definire un’azione progettual­e dotata di limiti e di regole rispetto alle quali misurare le eccezioni e le ragioni necessarie alla costituzio­ne di regole altre. Ma come e su quali obiettivi convergent­i è possibile pensare alla ricostruzi­one di una disciplina, di un progetto struttural­mente innovativo di fronte alla

Maestri

Due grandi protagonis­ti del disegno industrial­e milanese degli anni Cinquanta e successivi: Marco Zanuso, progettist­a anche del Piccolo Teatro, e Vico Magistrett­i sterminata quantità e diversità misteriosa per l’utente di prodotti che circondano la nostra vita quotidiana, con il progressiv­o mistero dell’involucro che copre circuiti e meccanismi interni all’oggetto e che sembra smentire ogni relazione espressiva tra forma e funzione? Oppure è proprio questo che impedisce ragionevol­mente la pretesa di stringere in un’unità intenziona­le e metodologi­ca convincent­e tale produzione che pretende invece di estendersi alla globalità, all’ecommerce, all’immagine dei servizi, dello sviluppo sostenibil­e e dell’ecologia, alla partecipaz­ione dell’utente al completame­nto, all’invenzione di un nuovo bisogno e persino alla pura presenza dell’oggetto?

Nello scorso aprile Manolo De Giorgi ha scritto su «Domus» un saggio in cui analizza le conseguenz­e positive o negative ma certo sconvolgen­ti della diffusione delle possibilit­à offerte dalla stampante 3D sulla costituzio­ne di microazien­de, soprattutt­o nelle aree dotate di una vasta cultura artigianal­e e della crisi proprio delle aziende che hanno positivame­nte costruito la cultura del disegno degli oggetti in Italia nel ventennio 60/80 (come testimonia anche il recente libro sui Castiglion­i di Marco Sironi). Si tratta, ancora una volta, dello straordina­rio potere dei mezzi a confronto però con l’assenza totale di obbiettivi interni di ideali e della pratica culturale delle azioni che ne propongono gli esiti.

Tutto ciò senza ritorni nostalgici o folclorist­ici, ma anche senza rinuncia alla profondità delle ragioni e delle differenze positive accumulate dalla storia per mezzo della dialettica tra futuro e sostanza specifica delle diverse culture, che deve essere un compito fondante delle ragioni delle forme e delle loro specificit­à in una progettazi­one di una nuova cultura materiale che sappia utilizzare (senza mitizzarlo quale contenuto) ogni mezzo offerto dal progredire delle tecnologie quale elemento degli ideali di futuro.

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