«Non scrivere di me» di Livia Manera Sambuy (Feltrinelli) Gallant, Roth, Purdy e gli altri: incontri con le voci dell’America
Comincia come un romanzo, Non scrivere di me di Livia Manera Sambuy: un soggiorno in Africa, un flashback innescato dalla lettura di un racconto di Hemingway, lo scoprirsi diversa dalla ragazzina di un tempo; il realizzare di esserlo perché in mezzo c’è stata una vita — una vita di letture. Comincia come un romanzo, questo libro appena uscito per Feltrinelli con una copertina di Adrian Tomine perfetta sia per l’atmosfera che per il suo evocare il «New Yorker», rivista che ricorre spesso nel testo e di cui Tomine è stato più volte copertinista, e del romanzo ha il respiro nonostante sia un libro di non-fiction, la raccolta degli incontri dell’autrice con alcuni grandi scrittori nordamericani. Diciamo «autrice» ma potremmo dire protagonista, perché è forte, ancorché delicata, la presenza nel libro dello sguardo e della voce di Livia Manera, a cominciare dalle scelte fatte.
È sufficiente scorrere l’archivio storico del «Corriere della Sera» per capire che nella sua carriera ha attraversato l’intero spettro della letteratura angloamericana; tuttavia, tra tanti incontri, ha scelto di rievocarne otto, cosa che appare come una precisa scelta di poetica. Due grandi scrittori poco noti in Italia — Mavis Gallant e James Purdy; due grandi invece celebri — David Foster Wallace e Philip Roth; due autori che ben incarnano un certo spirito pratico degli Stati Uniti, Richard Ford e Paula Fox; due scrittori-giornalisti, sorta di specchi dell’autrice stessa, Joe Mitchell e Judith Thurman. Ma gli specchi, in Non scrivere di me, sono ovunque. Il primo è proprio Mavis Gallant, che Livia Manera incontra quando si è appena trasferita, da sola, a Parigi, esattamente come fece la scrittrice canadese nel 1950, e con cui stabilisce un’amicizia fatta di confidenza, ironia e riconoscimento; l’ultimo è Philip Roth, leggenda vivente con cui Manera instaura un legame forte, che porterà a due documentari, una conoscenza profonda e una lunga frequentazione — sarà lo stesso Roth a canzonarla amorevolmente con le parole di Groucho Marx « Oh Lydia,
di Livia Manera Sambuy, esce oggi da Feltrinelli (pp.208, € 16). Il libro ripercorre gli incontri con otto scrittori americani. Nelle foto accanto, da sinistra in senso orario: Mavis Gallant, David Foster Wallace, Philip Roth, Paula Fox importante può essere detto in modo diretto», Non scrivere di me dimostra invece che quando l’incontro e l’intervista non sono più stretta attualità culturale, quando subentrano il coinvolgimento emotivo e una sensibilità del tutto particolare a conferir loro ulteriori filtri, è lì che la figura e il pensiero dell’autore riappaiono sotto una luce nuova.
È possibile che il lettore si avvicini a questo libro per i nomi più celebri, per scoprire qualcosa in più su Roth o Wallace, e splendidi sono in effetti i loro ritratti; ma il vero dono che si ricava dalla lettura di Non scrivere di me è quello della ricostruzione di un piccolo «canone maneriano», sicuramente diverso da quello di molti lettori italiani, anche appassionati di letteratura americana: e andrà a finire che ci ritroveremo a ricercare negli scaffali di casa quel vecchio Einaudi di James Purdy finito chissà dove; che andremo in libreria per acquistare i Bur dei racconti di Mavis Gallant, o i libri di Joe Mitchell recentemente ripubblicati da Adelphi.
L’autrice si fa sponda e specchio di chi incontra. Andando oltre la cronaca