Le sue statue con misticismo e quella lezione di Brancusi
L’amico lo indirizzò alla scultura (e lo indusse a lasciarla)
Guardi il ritratto che gli fece André Derain, lo confronti con quello che regalò all’amata Jeanne Hébuterne, la celebre foto dove appare bello e un po’ dandy nel completo di velluto scuro alla maremmana, gli stivali allacciati, il fazzoletto al collo, la divisa da «maledetto» che s’infilò a Parigi dopo aver gettato nella Senna l’abito da bravo ragazzo livornese.
Ma chi era il vero Modigliani? Non lo sapeva Derain, nemmeno Soutine, che pure posò per lui, nemmeno Gino Severini, toscano in Francia come Modigliani. Non lo sapeva il poeta alchimista Max Jacob, che lo frequentava con grande assiduità.
Men che meno lo sapeva Jeanne, dal lungo collo e gli occhi a mandorla, l’ultima della sterminata corte di amanti che si chiamavano Anna Achmatova, Beatrice Hastings, Elvira la Quique, Lunia Czechowska, Simone Thiroux pescando a caso cinque nomi. Di quindici anni più giovane, malata di tisi come il pittore, che la sposò e al quale darà una figlia che avrà il suo nome, si tolse di mezzo, incinta di otto mesi, gettandosi dalla finestra del quinto piano.
Quarantotto ore dopo la tragica fine di Modigliani in ospedale, a soli 36 anni. Genio, droga e bohème. Inferno e paradiso. I biografi hanno elucubrato in profondità sui peccati del livornese, Dedo per gli amici di gioventù, Modì (la stessa pronuncia della parola francese «maudit», maledetto) a Parigi, negli anni bohémien di Montparnasse e Montmartre.
È lì, nelle strade profumate d’assenzio e acqua ragia, che nasce l’affaire Modigliani. Che ci faceva a Parigi? Chi frequentava e, soprattutto, come dipingeva?
Bisogna sempre sapersi giudicare senza indulgenza sentimentale Cerco di formulare con la maggior lucidità le verità sull’arte
un tema scabroso, quello della scultura di Modigliani. Non solo perché con la beffa delle teste sbozzate col Black & Decker nel 1984 e fatte ritrovare nel Fosso mediceo di Livorno persero la faccia critici come Argan, Ragghianti, Carli o Brandi, che le dichiararono autentiche, ma anche perché Modigliani praticò l’arte dello scalpello per pochi mesi, dal 1912 alla primavera del 1913. Una breve stagione che produsse poco più di 20 opere e molti disegni. A iniziarlo alla scultura, consigliandolo sulla lavorazione della pietra a taglio diretto, fu soprattutto l’amico romeno Constantin Brancusi. Per i riferimenti stilistici, invece, le fonti furono molteplici.
Innanzitutto la scultura egizia che Modì andava ad ammirare al Louvre e da cui imparò la frontalità e l’estrema semplificazione geometrica, senza alcun cenno di moto espressivo. Il carattere ieratico, sacro, era una caratteristica anche di altre statue esposte al Museo Etnografico del Trocadéro da cui Modigliani traeva suggerimenti: gli allungamenti delle teste Guro, i nasi a lama di rasoio delle maschere Fang, le bocche a cilindro estroflesso delle maschere Etoumbi, i sorrisi enigmatici delle statue dell’«esposizione di Angkor» nella sezione dell’antico Oriente. Ma fra le fonti non va nemmeno dimenticato, come insisteva Lipchitz, il primo Rinascimento e persino il sorriso delle sculture greche arcaiche. L’abilità di Modigliani stava nella sintesi di tutti questi differenti linguaggi, dai quali riusciva a distillare la comune qualità mistica.
È interessante, a questo proposito, la testimonianza di Jacob Epstein, che ricordava di aver visto nello studio del collega italiano nove o dieci teste sulla sommità delle quali, di notte, Modigliani collocava candele «per creare l’effetto di un tempio primitivo». Come in greco antico eídolon indica l’immagine sacra, Modigliani pensava le sue teste scolpite «in un rapporto con lo spazio non di continuità logica, ma di discontinuità magica», ha scritto Flavio Fergonzi in occasione della mostra dedicata alla scultura di Modigliani nel 2010 dal Mart di Rovereto.
Tuttavia questa sintesi di primitivismo magico possedeva un’eleganza sofisticata, vagamente liberty, intonata con il gusto per l’esotismo disimpegnato di moda nella Parigi di quegli anni. Quando, nel 1913, Modigliani abbandonò definitivamente la scultura, fu forse costretto dalla tubercolosi che gli rendeva penoso respirare la polvere di lavorazione. Ma non possiamo fare a meno di pensare che Modì si rendesse conto di aver Provocatore A sinistra Constantin Brancusi e, a destra, la sua discussa scultura «Princess X» (1915-16) preso una strada quanto mai distante dai linguaggi radicali dei suoi compagni, a cominciare da Brancusi. Dopo l’infatuazione egizia e orientale, il romeno stava passando alla ricerca di puri volumi astratti, fine a se stessi, come si vede in Princess X. Una scultura che fece scandalo per la sua forma fallica, ma nella quale Brancusi aveva ridotto a volumi il ritratto della principessa Marie Bonaparte che si china a specchiarsi con i due rigonfiamenti alla base della scultura simulacro dei seni della nobildonna.
Non solo: a stravolgere la scultura tradizionale c’era anche Boccioni, che nel 1913 presentò a Parigi Forme uniche della continuità nello spazio accompagnato dalle teorie sulla simultaneità e il dinamismo esposte nel Manifesto della scultura futurista. C’era Picasso, che quella simultaneità la trovava nella scansione dei volumi, ma soprattutto c’era Duchamp. La sua Fontana, l’orinatoio proclamato opera d’arte nel 1917, lo stesso anno della morte di Rodin «il grande funerario», rendeva d’un colpo anacronistico ogni precedente esercizio tradizionale con lo scalpello.
La scelta estetica Nelle sue teste univa il primitivismo magico a un’eleganza liberty. Tutto all’improvviso anacronistico per le svolte dell’amico romeno e di Boccioni