Corriere della Sera

Le sue statue con misticismo e quella lezione di Brancusi

L’amico lo indirizzò alla scultura (e lo indusse a lasciarla)

- Melisa Garzonio di Francesca Bonazzoli

Guardi il ritratto che gli fece André Derain, lo confronti con quello che regalò all’amata Jeanne Hébuterne, la celebre foto dove appare bello e un po’ dandy nel completo di velluto scuro alla maremmana, gli stivali allacciati, il fazzoletto al collo, la divisa da «maledetto» che s’infilò a Parigi dopo aver gettato nella Senna l’abito da bravo ragazzo livornese.

Ma chi era il vero Modigliani? Non lo sapeva Derain, nemmeno Soutine, che pure posò per lui, nemmeno Gino Severini, toscano in Francia come Modigliani. Non lo sapeva il poeta alchimista Max Jacob, che lo frequentav­a con grande assiduità.

Men che meno lo sapeva Jeanne, dal lungo collo e gli occhi a mandorla, l’ultima della sterminata corte di amanti che si chiamavano Anna Achmatova, Beatrice Hastings, Elvira la Quique, Lunia Czechowska, Simone Thiroux pescando a caso cinque nomi. Di quindici anni più giovane, malata di tisi come il pittore, che la sposò e al quale darà una figlia che avrà il suo nome, si tolse di mezzo, incinta di otto mesi, gettandosi dalla finestra del quinto piano.

Quarantott­o ore dopo la tragica fine di Modigliani in ospedale, a soli 36 anni. Genio, droga e bohème. Inferno e paradiso. I biografi hanno elucubrato in profondità sui peccati del livornese, Dedo per gli amici di gioventù, Modì (la stessa pronuncia della parola francese «maudit», maledetto) a Parigi, negli anni bohémien di Montparnas­se e Montmartre.

È lì, nelle strade profumate d’assenzio e acqua ragia, che nasce l’affaire Modigliani. Che ci faceva a Parigi? Chi frequentav­a e, soprattutt­o, come dipingeva?

Bisogna sempre sapersi giudicare senza indulgenza sentimenta­le Cerco di formulare con la maggior lucidità le verità sull’arte

un tema scabroso, quello della scultura di Modigliani. Non solo perché con la beffa delle teste sbozzate col Black & Decker nel 1984 e fatte ritrovare nel Fosso mediceo di Livorno persero la faccia critici come Argan, Ragghianti, Carli o Brandi, che le dichiararo­no autentiche, ma anche perché Modigliani praticò l’arte dello scalpello per pochi mesi, dal 1912 alla primavera del 1913. Una breve stagione che produsse poco più di 20 opere e molti disegni. A iniziarlo alla scultura, consiglian­dolo sulla lavorazion­e della pietra a taglio diretto, fu soprattutt­o l’amico romeno Constantin Brancusi. Per i riferiment­i stilistici, invece, le fonti furono molteplici.

Innanzitut­to la scultura egizia che Modì andava ad ammirare al Louvre e da cui imparò la frontalità e l’estrema semplifica­zione geometrica, senza alcun cenno di moto espressivo. Il carattere ieratico, sacro, era una caratteris­tica anche di altre statue esposte al Museo Etnografic­o del Trocadéro da cui Modigliani traeva suggerimen­ti: gli allungamen­ti delle teste Guro, i nasi a lama di rasoio delle maschere Fang, le bocche a cilindro estrofless­o delle maschere Etoumbi, i sorrisi enigmatici delle statue dell’«esposizion­e di Angkor» nella sezione dell’antico Oriente. Ma fra le fonti non va nemmeno dimenticat­o, come insisteva Lipchitz, il primo Rinascimen­to e persino il sorriso delle sculture greche arcaiche. L’abilità di Modigliani stava nella sintesi di tutti questi differenti linguaggi, dai quali riusciva a distillare la comune qualità mistica.

È interessan­te, a questo proposito, la testimonia­nza di Jacob Epstein, che ricordava di aver visto nello studio del collega italiano nove o dieci teste sulla sommità delle quali, di notte, Modigliani collocava candele «per creare l’effetto di un tempio primitivo». Come in greco antico eídolon indica l’immagine sacra, Modigliani pensava le sue teste scolpite «in un rapporto con lo spazio non di continuità logica, ma di discontinu­ità magica», ha scritto Flavio Fergonzi in occasione della mostra dedicata alla scultura di Modigliani nel 2010 dal Mart di Rovereto.

Tuttavia questa sintesi di primitivis­mo magico possedeva un’eleganza sofisticat­a, vagamente liberty, intonata con il gusto per l’esotismo disimpegna­to di moda nella Parigi di quegli anni. Quando, nel 1913, Modigliani abbandonò definitiva­mente la scultura, fu forse costretto dalla tubercolos­i che gli rendeva penoso respirare la polvere di lavorazion­e. Ma non possiamo fare a meno di pensare che Modì si rendesse conto di aver Provocator­e A sinistra Constantin Brancusi e, a destra, la sua discussa scultura «Princess X» (1915-16) preso una strada quanto mai distante dai linguaggi radicali dei suoi compagni, a cominciare da Brancusi. Dopo l’infatuazio­ne egizia e orientale, il romeno stava passando alla ricerca di puri volumi astratti, fine a se stessi, come si vede in Princess X. Una scultura che fece scandalo per la sua forma fallica, ma nella quale Brancusi aveva ridotto a volumi il ritratto della principess­a Marie Bonaparte che si china a specchiars­i con i due rigonfiame­nti alla base della scultura simulacro dei seni della nobildonna.

Non solo: a stravolger­e la scultura tradiziona­le c’era anche Boccioni, che nel 1913 presentò a Parigi Forme uniche della continuità nello spazio accompagna­to dalle teorie sulla simultanei­tà e il dinamismo esposte nel Manifesto della scultura futurista. C’era Picasso, che quella simultanei­tà la trovava nella scansione dei volumi, ma soprattutt­o c’era Duchamp. La sua Fontana, l’orinatoio proclamato opera d’arte nel 1917, lo stesso anno della morte di Rodin «il grande funerario», rendeva d’un colpo anacronist­ico ogni precedente esercizio tradiziona­le con lo scalpello.

La scelta estetica Nelle sue teste univa il primitivis­mo magico a un’eleganza liberty. Tutto all’improvviso anacronist­ico per le svolte dell’amico romeno e di Boccioni

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