Torna la prudenza nei conti italiani
Il governo frena sull’effetto delle riforme per la crescita
Impatto zero. Le riforme del 2014, dal Job act alla giustizia, alla pubblica amministrazione, non stanno portando una briciola in più alla crescita dell’economia. E se lo facessero al governo, in ogni caso, non converrebbe dirlo. Dai numeri ufficiali del nuovo Documento di economia e finanza, l’effetto della riforme sulla crescita tendenziale del pil nel 2016, 2017 e 2018, ad ogni buon conto, è stato cancellato. E non era neanche trascurabile, un punto di prodotto interno lordo in tre anni.
Non che il governo non creda alla bontà della sua politica. Le ragioni della decisione sono altre. La prima la spiega il Def stesso: se si teneva conto pure delle riforme, col miglioramento della congiuntura, il pil sarebbe cresciuto troppo, e ci sarebbero stati «ulteriori miglioramenti nei saldi di bilancio». Ragioni definite «prudenziali». In pratica si rischiava di arrivare troppo presto al pareggio di bilancio,restringendo il margine di manovra politica del governo.
«In parte è così, ma il vero motivo - spiega il vice ministro dell’Economia, Enrico Morando - è che sono le regole assurde della Ue ad aver indotto il governo a tagliare l’effetto delle riforme». Nei metodi di calcolo della Commissione Ue, infatti, queste ultime non hanno alcuna rilevanza, nessun effetto sul potenziale di crescita di un paese. Che è una misura chiave per calcolare le sue condizioni economiche e di bilancio: più il pil è lontano dal potenziale, minori sono gli sforzi di bilancio da fare per giungere al traguardo del pareggio.
L’effetto perverso della regola è evidente. Tener conto delle riforme nel pil tendenziale, ma non nel potenziale, riduce la differenza (che si chiama output gap). E fa aumentare gli sforzi di bilancio richiesti. «Così, i paesi membri - spiega Stefano Fantacone, economista del Cer - non hanno alcun incentivo a considerare l’effetto delle loro riforme nel pil». «È un meccanismo che crea distorsioni» aggiunge Morando.
Da una parte i governi continuano a fare pressing sulla Ue perché questa consideri l’effetto delle riforme, e si sforzano di misurarne gli effetti positivi se questo, grazie alle nuove clausole, serve ad allentare un po’ la cinghia del rigore. Dall’altra parte sono pronti a nasconderli, quando e se si rendono conto che non conviene. Nel 2014 l’Italia ottenne un anno di tempo in più per arrivare al pareggio di bilancio proprio perché faceva quelle riforme, considerate salutari per la crescita. Davano 0,2 punti di pil aggiuntivo nel 2016, e 0,4 nel 2017 e 2018. Un punto di pil sparito tra convenienze contabili e bizantinismi comunitari. E poi dicono che le riforme facciano bene all’economia.