Sapienza artigiana applicata al materiale bellico, una mostra a San Zenone (Treviso) E l’elmetto diventò un vaso di fiori La Grande guerra insegnò il riciclo
La raccolta di racconti
da cui è tratto il testo pubblicato in queste pagine è edito da Feltrinelli (traduzione di Delfina Vezzoli, pp. 128, 10)
Jonathan Coe è nato a Birmingham in Gran Bretagna nel 1961 e ha scritto musica prima di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura. Dopo l’esordio narrativo con il romanzo a guerra è una brutta bestia che gira il mondo e non si ferma mai», diceva Toni Lunardi, ispiratore e protagonista del mio film I recuperanti. Lo chiamavano «Toni matto», aveva fatto il pastore, sapeva trovare i sentieri di notte. Per questo l’avevano coinvolto nella guerra, perché non si perdeva mai. Anche nel buio più profondo. Sapeva sì e no leggere e scrivere, ma aveva una capacità omerica di raccontare. Storie straordinarie… Autentiche epopee.
Quando aveva ottantaquattro anni, e posso assicurare che erano ottantaquattro anni portati da galantuomo, mi diceva: «Non mi dispiacerebbe morire, perché sono stufo di sentir balle». E la menzogna più grande, aveva ragione, fu la Grande guerra. Una menzogna che gettò gli uni contro gli altri centinaia di migliaia di ragazzi e ragazzini. Mandati a scannarsi fra di loro nelle trincee, mentre i generali, come dice la canzone O Gorizia tu sei maledetta, se ne stavano sui letti di lana.
Diceva Giovanni XXIII che solo i poveri capiscono i poveri. È vero. C’erano trincee, su a Monte Zebio, separate da otto metri. Otto metri! Da qua a là. I soldati si parlavano: «Come siete messi a legna?» E stabilivano delle tregue perché dall’una e dall’altra parte potessero andare a «far fagaro», cioè a rifornirsi di faggio e altro legname, per scaldarsi e alleviare le pene della trincea. Era la vita che interrompeva la morte. E anticipava il ritorno alla vita.
È così: dopo ogni guerra, anche la più menzognera e spaventosa, torna la pace. La voglia di ricominciare. La vita. Ricordo le parole di quello che il cardinale Giancarlo Ravasi considera «il Dante della poesia ebraica e vertice dei profeti d’Israele», cioè il profeta Isaia: «Spezzeranno le loro spade per farne aratri, trasformeranno le loro lance in falci». Lo ripeteva sempre anche
Elmetto con stelle alpine esposto nella mostra «La vita dopo la Grande guerra» Giorgio La Pira. Le spade aratri.
È commovente vedere questi pezzi raccolti per la mostra La vita dopo la Grande guerra. I bossoli d’artiglieria lavorati dai battirame per farne dei portafiori da mettere nel capitello con la madonnina o sopra il camino in cucina. L’elmetto rovesciato che con la saldatura di un tubo diventa un imbuto. Il piatto di una gavetta bucherellata per farne S’intitola La vita dopo la Grande guerra, l’arte del riciclo dei materiali bellici mostra in corso fino al 5 luglio presso la Villa Rubelli di San Zenone degli Ezzelini, in
la una grattugia. Lo scovolo dello spazzacamino calato dal comignolo con la spazzola attaccata al fondello di un proiettile. La cintura di cuoio austriaca usata per reggere il campanaccio al collo delle vacche…
Era un’arte, recuperare. C’erano due fratelli, qui ad Asiago, che dopo la guerra ebbero l’incarico dal Comune di tenere in ordine le strade e tappare le buche. provincia di Treviso. Curata da Egidio Guidolin, presenta una ricca collezione di oggetti recuperati sui territori battuti dalla Grande guerra e riciclati per l’uso domestico. Avevano un soprannome: «i Hani». E così tutti li chiamavano. Giravano con una moto Guzzi che dava uno scoppio di motore qua e uno venti metri più avanti. Bruum! Bruum! Il sedile dietro era rialzato, così quando venivano avanti vedevi tutte due le teste, una sopra l’altra, il fratello alla guida e quello dietro. Scoprirono nella zona che era stata controllata dagli austriaci una villa bellissima, costruita per gli ufficiali, completamente di legno. Pezzo per pezzo riuscirono a smontarla tutta e a rimontarla in contrada Rodighiero. Erano formidabili, «i Hani». Quando arrivarono i primi turisti, adocchiavano qualche bella fanciulla e andavano a farle la serenata con un grammofono. Appoggiavano la scala sotto la finestra, si passavano su su l’apparecchio e là in cima, in equilibrio instabile, uno reggeva il grammofono e l’altro girava la manovella.
Era un’Italia povera che aveva una straordinaria capacità artigianale. Nell’aggiustamento di questi pezzi vedi una fantasia, una pazienza e soprattutto una abilità manuale che oggi sono andate perdute. Ci voleva una grande perizia tecnica per piegare, arrotondare, limare e trasformare una baionetta francese in un falcetto. Chi lo saprebbe fare, oggi? Questa cultura antica di non buttare via le cose, ma di usarle con un’altra funzione, è venuta completamente a mancare. Chi la farebbe tutta quella fatica per riciclare la canna di un fucile e trarne, con la biforcazione finale, un soffione per ravvivare il fuoco?
Il pezzo più bello, però, è quell’elmetto appeso col filo di ferro a un picchetto sul muro e trasformato in un vaso di fiori. C’è un buco, in quell’elmetto. Forse di una pallottola o della scheggia di una granata che ferì o uccise il soldatino che lo indossava. E quel buco, attraverso il quale passò forse la morte, consente oggi all’acqua in eccesso di andarsene. E aiuta a vivere quelle bellissime stelle alpine. È vita. Arte. Poesia.