TEMPO DI RIPENSARE L’UNIONE
L’Unione Europea non è una federazione e ciascuno dei suoi membri potrebbe conservare a lungo una parte della propria sovranità. Ma le loro elezioni non sono più esclusivamente nazionali. La sconfitta personale del leader indipendentista Nigel Farage (nonostante il 13% dei voti conquistati dal Ukip) lancia un segnale che verrà raccolto da tutti i partiti populisti del continente; e il mediocre risultato dei liberaldemocratici di Nick Clegg parla, in particolare, ai liberali tedeschi. La vittoria dei conservatori ci concerne. David Cameron ha avuto il merito di mettere l’Europa al centro della campagna elettorale e non è sorprendente che il presidente della Commissione di Bruxelles sia stato il primo a indirizzargli un messaggio. Jean-Claude Juncker sa che una delle iniziative del primo ministro britannico, dopo la vittoria, sarà verosimilmente il tentativo di modificare lo status della Gran Bretagna nell’Unione Europea. In altre circostanze Londra avrebbe cercato di ritoccare qua e là, spesso con il benevolo aiuto di altri membri dell’Ue, le regole che non le piacciono. Ma l’annuncio fatto negli scorsi mesi e la prospettiva di un referendum sull’appartenenza della Gran Bretagna all’Unione, hanno il merito di rendere europeo ciò che rischiava di frantumarsi in una somma di pre-negoziati bilaterali.
Era ora. Quando è entrata nella Comunità, nel 1973, l’Inghilterra ha portato con sé le sue predilezioni liberiste e ha dato un forte contributo alla formazione del Mercato unico. Ma ha preteso un trattamento di favore per la politica agricola e si è spesso opposta a misure che avrebbero comportato una progressiva erosione delle sovranità nazionali. Non avevamo motivo di esserne sorpresi. Sapevamo che Londra, negli anni Cinquanta, aveva contrapposto al disegno europeo di Jean Monnet una grande zona di libero scambio, priva di ambizioni politiche. E non potevamo ignorare che cambiò la sua linea soltanto quando constatò che il suo progetto era fallito.
Venticinque anni fa, dopo la caduta del Muro di Berlino, quando venne in discussione la sorte dei «satelliti» dell’Urss, occorreva decidere se procedere subito all’allargamento dell’Unione o attendere che i vecchi membri collaudassero anzitutto le istituzioni create dal Trattato di Maastricht. La Gran Bretagna si batté per l’allargamento, vinse, ci costrinse ad accogliere in tempi relativamente brevi Paesi che venivano da esperienze molto diverse dalle nostre e guardavano a Washington, per il loro futuro, più di quanto guardassero a Bruxelles. La Gran Bretagna ottenne così due risultati: rese l’Unione meno omogenea e poté contare da allora sull’appoggio di tutti coloro che avevano cercato alloggio nell’Unione soprattutto per considerazioni economiche.
Oggi il quadro potrebbe cambiare. Quando comincerà il negoziato con Bruxelles sapremo con meglio quali siano le preferenze britanniche. Londra è pronta ad accettare che il Parlamento di Strasburgo abbia maggiori poteri? Che il rappresentante europeo per la Politica estera assomigli maggiormente a un ministro degli Esteri? Che il principio della libera circolazione delle persone, sia pure con le cautele imposte dalle minacce terroristiche, venga confermato? Il referendum, quando avrà luogo, sarà utile anche a noi. Sapremo finalmente se e quanto sia possibile contare sulla Gran Bretagna per il futuro dell’Europa. Non è escluso che da quel negoziato emerga la preferenza della società britannica per una sorta di Brexit, vale a dire la conservazione della propria eccezionalità. Ebbene, non sarà una rottura. Abbiamo troppo in comune per buttare via tutto ciò che ci unisce.