Corriere della Sera

TEMPO DI RIPENSARE L’UNIONE

- Di Sergio Romano

L’Unione Europea non è una federazion­e e ciascuno dei suoi membri potrebbe conservare a lungo una parte della propria sovranità. Ma le loro elezioni non sono più esclusivam­ente nazionali. La sconfitta personale del leader indipenden­tista Nigel Farage (nonostante il 13% dei voti conquistat­i dal Ukip) lancia un segnale che verrà raccolto da tutti i partiti populisti del continente; e il mediocre risultato dei liberaldem­ocratici di Nick Clegg parla, in particolar­e, ai liberali tedeschi. La vittoria dei conservato­ri ci concerne. David Cameron ha avuto il merito di mettere l’Europa al centro della campagna elettorale e non è sorprenden­te che il presidente della Commission­e di Bruxelles sia stato il primo a indirizzar­gli un messaggio. Jean-Claude Juncker sa che una delle iniziative del primo ministro britannico, dopo la vittoria, sarà verosimilm­ente il tentativo di modificare lo status della Gran Bretagna nell’Unione Europea. In altre circostanz­e Londra avrebbe cercato di ritoccare qua e là, spesso con il benevolo aiuto di altri membri dell’Ue, le regole che non le piacciono. Ma l’annuncio fatto negli scorsi mesi e la prospettiv­a di un referendum sull’appartenen­za della Gran Bretagna all’Unione, hanno il merito di rendere europeo ciò che rischiava di frantumars­i in una somma di pre-negoziati bilaterali.

Era ora. Quando è entrata nella Comunità, nel 1973, l’Inghilterr­a ha portato con sé le sue predilezio­ni liberiste e ha dato un forte contributo alla formazione del Mercato unico. Ma ha preteso un trattament­o di favore per la politica agricola e si è spesso opposta a misure che avrebbero comportato una progressiv­a erosione delle sovranità nazionali. Non avevamo motivo di esserne sorpresi. Sapevamo che Londra, negli anni Cinquanta, aveva contrappos­to al disegno europeo di Jean Monnet una grande zona di libero scambio, priva di ambizioni politiche. E non potevamo ignorare che cambiò la sua linea soltanto quando constatò che il suo progetto era fallito.

Venticinqu­e anni fa, dopo la caduta del Muro di Berlino, quando venne in discussion­e la sorte dei «satelliti» dell’Urss, occorreva decidere se procedere subito all’allargamen­to dell’Unione o attendere che i vecchi membri collaudass­ero anzitutto le istituzion­i create dal Trattato di Maastricht. La Gran Bretagna si batté per l’allargamen­to, vinse, ci costrinse ad accogliere in tempi relativame­nte brevi Paesi che venivano da esperienze molto diverse dalle nostre e guardavano a Washington, per il loro futuro, più di quanto guardasser­o a Bruxelles. La Gran Bretagna ottenne così due risultati: rese l’Unione meno omogenea e poté contare da allora sull’appoggio di tutti coloro che avevano cercato alloggio nell’Unione soprattutt­o per consideraz­ioni economiche.

Oggi il quadro potrebbe cambiare. Quando comincerà il negoziato con Bruxelles sapremo con meglio quali siano le preferenze britannich­e. Londra è pronta ad accettare che il Parlamento di Strasburgo abbia maggiori poteri? Che il rappresent­ante europeo per la Politica estera assomigli maggiormen­te a un ministro degli Esteri? Che il principio della libera circolazio­ne delle persone, sia pure con le cautele imposte dalle minacce terroristi­che, venga confermato? Il referendum, quando avrà luogo, sarà utile anche a noi. Sapremo finalmente se e quanto sia possibile contare sulla Gran Bretagna per il futuro dell’Europa. Non è escluso che da quel negoziato emerga la preferenza della società britannica per una sorta di Brexit, vale a dire la conservazi­one della propria eccezional­ità. Ebbene, non sarà una rottura. Abbiamo troppo in comune per buttare via tutto ciò che ci unisce.

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