Corriere della Sera

La tentazione (sbagliata) del ricalcolo

- Giuliano Cazzola Maurizio Sacconi

La Consulta appare consapevol­e del difficile equilibrio tra risorse disponibil­i e diritti sociali nel momento in cui conferma la sua primaria attenzione alla stabilità della nazione. Essa ha ritenuto illegittim­o l’intervento sulle pensioni non in sé ma per le sue modalità. È bene ricordare che quando il Governo Prodi, per compensare la controrifo­rma dello «scalone» Maroni, tagliò per un anno ma con effetti permanenti la perequazio­ne sulle pensioni di importo superiore ad otto volte il minimo, la Consulta bocciò i ricorsi. La Corte ha però voluto confermare un caveat a coloro che vorrebbero prendere a calci i diritti acquisiti, aggravando il clima di incertezza del futuro che frena i consumi delle famiglie italiane. Evitiamo «liste di proscrizio­ne» dei pensionati — come se il 90% dei trattament­i erogati fossero «profitti di regime» — il cui assegno è calcolato con il metodo retributiv­o secondo le norme introdotte nel 1969. Fu allora compiuta la scelta di assicurare un trattament­o equipollen­te alla retribuzio­ne media percepita nell’ultimo periodo della vita attiva con lo scopo di evitare un drastico peggiorame­nto del reddito. Neppure la riforma DiniTreu del 1995 volle modificare completame­nte tale impostazio­ne. Solo ora è comparsa l’idea di ridetermin­are con il calcolo contributi­vo i trattament­i medi e alti liquidati con il metodo retributiv­o quando il loro importo non è — oltre una opinabile soglia — «giustifica­to» dai versamenti effettuati. I sostenitor­i di questa tesi partono dal presuppost­o che il sistema retributiv­o abbia in sé una «rendita di posizione» non meritevole di tutela. Ma se così è, perché il «crucifige» dovrebbe agire solo su una parte delle pensioni? Non è, poi, il modello contributi­vo che di per sé penalizzer­à le pensioni dei giovani ma il loro instabile percorso di vita lavorativa. Come non è vero che tutti i vantaggi stiano nel retributiv­o e tutti gli svantaggi nel contributi­vo. Nel primo sistema, infatti, i lavoratori effettuano i versamenti sull’intera retribuzio­ne percepita, ma il rendimento è pari al 2% per ogni anno fino a 45 mila euro di reddito. Per le quote eccedenti l’aliquota è decrescent­e. Nel retributiv­o, inoltre, la pensione è sottoposta ad un tetto massimo di 40 anni per cui negli anni eccedenti si pagano contributi senza vantaggio. Nel regime contributi­vo, invece, dovranno contare tutti i versamenti effettuati e il montante accreditat­o viene moltiplica­to per un coefficien­te di trasformaz­ione più elevato. I lavoratori con retribuzio­ni maggiori, inoltre, versano i contributi soltanto su di un massimale di circa 100mila euro l’anno. La giurisprud­enza costituzio­nale indica comunque una difesa tendenzial­e, ma non assoluta, dei diritti acquisiti. Il che consente interventi purché limitati nel tempo e solidali, non tali da produrre per persone prossime a pensione o già pensionate una modifica struttural­e del Patto con lo Stato. Irragionev­ole perché non darebbe a queste persone il tempo per rimediarvi operosamen­te. Percorso instabile In prospettiv­a non sarà solo il modello contributi­vo a penalizzar­e le pensioni dei giovani ma anche il loro instabile percorso di vita lavorativa

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