La tentazione (sbagliata) del ricalcolo
La Consulta appare consapevole del difficile equilibrio tra risorse disponibili e diritti sociali nel momento in cui conferma la sua primaria attenzione alla stabilità della nazione. Essa ha ritenuto illegittimo l’intervento sulle pensioni non in sé ma per le sue modalità. È bene ricordare che quando il Governo Prodi, per compensare la controriforma dello «scalone» Maroni, tagliò per un anno ma con effetti permanenti la perequazione sulle pensioni di importo superiore ad otto volte il minimo, la Consulta bocciò i ricorsi. La Corte ha però voluto confermare un caveat a coloro che vorrebbero prendere a calci i diritti acquisiti, aggravando il clima di incertezza del futuro che frena i consumi delle famiglie italiane. Evitiamo «liste di proscrizione» dei pensionati — come se il 90% dei trattamenti erogati fossero «profitti di regime» — il cui assegno è calcolato con il metodo retributivo secondo le norme introdotte nel 1969. Fu allora compiuta la scelta di assicurare un trattamento equipollente alla retribuzione media percepita nell’ultimo periodo della vita attiva con lo scopo di evitare un drastico peggioramento del reddito. Neppure la riforma DiniTreu del 1995 volle modificare completamente tale impostazione. Solo ora è comparsa l’idea di rideterminare con il calcolo contributivo i trattamenti medi e alti liquidati con il metodo retributivo quando il loro importo non è — oltre una opinabile soglia — «giustificato» dai versamenti effettuati. I sostenitori di questa tesi partono dal presupposto che il sistema retributivo abbia in sé una «rendita di posizione» non meritevole di tutela. Ma se così è, perché il «crucifige» dovrebbe agire solo su una parte delle pensioni? Non è, poi, il modello contributivo che di per sé penalizzerà le pensioni dei giovani ma il loro instabile percorso di vita lavorativa. Come non è vero che tutti i vantaggi stiano nel retributivo e tutti gli svantaggi nel contributivo. Nel primo sistema, infatti, i lavoratori effettuano i versamenti sull’intera retribuzione percepita, ma il rendimento è pari al 2% per ogni anno fino a 45 mila euro di reddito. Per le quote eccedenti l’aliquota è decrescente. Nel retributivo, inoltre, la pensione è sottoposta ad un tetto massimo di 40 anni per cui negli anni eccedenti si pagano contributi senza vantaggio. Nel regime contributivo, invece, dovranno contare tutti i versamenti effettuati e il montante accreditato viene moltiplicato per un coefficiente di trasformazione più elevato. I lavoratori con retribuzioni maggiori, inoltre, versano i contributi soltanto su di un massimale di circa 100mila euro l’anno. La giurisprudenza costituzionale indica comunque una difesa tendenziale, ma non assoluta, dei diritti acquisiti. Il che consente interventi purché limitati nel tempo e solidali, non tali da produrre per persone prossime a pensione o già pensionate una modifica strutturale del Patto con lo Stato. Irragionevole perché non darebbe a queste persone il tempo per rimediarvi operosamente. Percorso instabile In prospettiva non sarà solo il modello contributivo a penalizzare le pensioni dei giovani ma anche il loro instabile percorso di vita lavorativa