A bloccare la nascita di una forza armata comune sono l’asimmetria delle risorse nei vari Paesi e la pletora dei saperi La costruzione di un esercito continentale deve essere avviata da un gruppo ristretto di Stati membri che sia motivato anche economicam
Notizie di questa settimana: La Russia schiera nuove armi terrestri mentre le sue navi si esercitano insieme a quelle cinesi nel Mediterraneo; la Corea del Sud lancia un programma di armamento nucleare; il Califfato conquista la zona intorno a Sirte in Libia. Notizia di qualche settimana fa: l’Estonia ha chiesto alla Germania — vedi? i casi della Storia — di guidare un contingente europeo a sua protezione. I conflitti — e i rischi — crescono ai nostri confini e l’Unione potrebbe affrontarli solamente disponendo di una qualche credibilità militare a sostegno di una politica estera altrimenti sterile, quale in effetti essa oggi è. Questa credibilità, ahimè, non c’è e mancherà a lungo. E la proposta del Presidente della Commissione Junker di costruire una forza armata europea è caduta nel vuoto. D’altronde, si tratta di una speranza illusoria. Non per mancanza di volontà politica, messi alla strette potremmo anche maturarla; né perché, a differenza degli americani, «venuti da Marte» — diceva Robert Kagan — noi «discendiamo da Venere». È vero, ci siamo costruiti una splendida, forse un po’ ingannevole, oasi di pace, ma abbiamo anche combattuto per secoli e inventato la guerra moderna: vuoi che, pur con qualche sforzo, non saremmo in grado di ricominciare?
No, purtroppo c’è qualcosa di assai meno mutevole della politica, qualcosa che affonda le radici nell’enorme — e spesso poco conosciuta anche da chi dovrebbe padroneggiarla per mestiere — complessità dei sistemi militari.
Sostiene Filippo Andreatta nel suo avvincente saggio Potere militare e arte della guerra che non esiste capacità di difesa senza competenze tecnologiche, risorse economiche, strutture giuridiche. Ebbene. In Europa le prime sono troppe, le seconde asimmetriche, le terze assenti.
La forza è monopolio dello Stato e a nessun’altro viene concesso di esercitarla. L’Unione Europea, al di là del nome, non gode di uno status che le consenta di possedere armi e svolgere compiti di sicurezza. E solamente i suoi membri, eventualmente integrati tra loro, possono farlo. Ma qui vengono i dolori. Per avere forze armate comuni occorrono tecnologie e prodotti comuni: le capacità militari europee si fondano invece su tecnologie e prodotti diversi e spesso poco compatibili. Produciamo tre aerei da combattimento — l’Eurofighter, il Rafale e il Gripen — tutti in concorrenza tra loro; quattro Paesi costruiscono siluri e tre i sommergibili su cui imbarcarli; per non parlare dei mezzi terrestri dove ogni nazione ha le sue specialità. La gestione parcellizzata delle spese militari spreca in inefficienze e duplicazioni quasi il 20% dei circa sessanta miliardi di euro investiti ogni anno, che non sarebbero così pochi se impiegati meglio.
L’Unione Europea potrebbe sviluppare competenze tecniche sovranazionali e qualche timido tentativo è in corso. Un po’ di malavoglia, però. Perché significa integrare ingenti risorse finanziarie ed impegnarle per lungo tempo. Ma questo non piace molto alle nazioni che investono di più (Francia e Regno Unito), le quali temono una riduzione della loro autonomia nella gestione dei fondi per la difesa. E piace ancora meno a quei Paesi che vedono in questa iniziativa un trasferimento di reddito a coloro — Francia e Regno Unito, appunto, ma anche Germania, Italia e Svezia — che dispongono di una rilevante industria militare. Difficile convincerli, in periodi di crisi, che questa politica sarebbe anche nel loro interesse.
Lo status quo, peraltro, condanna il settore della difesa, di cui l’Europa è ampiamente dotata e che costituisce uno dei principali produttori di tecnologia e di reddito nazionale «di qualità». In modo tanto sbagliato quanto inevitabile, le nostre imprese continueranno a tentare di accaparrarsi gli striminziti budget domestici; a competere tra loro sui mercati mondiali senza esclusione di colpi; ad essere meno efficienti dei concorrenti statunitensi, il cui ritorno sul capitale investito è di tre o quattro punti percentuali più elevato; a sacrificare opportunità di crescita per loro e per il sistema industriale europeo.
Tema esaurito, dunque? No, se si avesse il coraggio di applicare alla difesa il modello dell’Unione monetaria: le nazioni che godono delle maggiori ricadute produttive degli investimenti integrano una quota significativa dei propri budget ed avviano — sviluppando prodotti condivisi — la costruzione di una forza armata da mettere a disposizione della politica estera europea. Assumendo, inevitabilmente, la leadership di quest’ultima, circostanza che potrebbe stimolare altre nazioni a partecipare.
Un progetto difficile, di lungo periodo, ma indispensabile. Se vogliamo che la tecnologia europea — civile e militare — mantenga il proprio vantaggio, oggi stimato in 10/12 anni, rispetto alle competenze dei Paesi emergenti. E se non vogliamo, un giorno, rivivere l’ansia di Churchill, quando rese noto all’azienda produttrice dei caccia da gettare nella Battaglia d’Inghilterra che, «se verrà ritardata la consegna degli aerei, la fattura potrà essere inviata direttamente alla Luftwaffe poiché il Governo di Sua Maestà non sarà in grado di onorarla».