Corriere della Sera

il commento di Antonio Armellini

Competizio­ne Il tasso di sviluppo più elevato di New Delhi non colma la distanza da Pechino, che rimane una potenza cinque volte più grande. Il viaggio compiuto da Modi e i colossali contratti conclusi nascondono le storiche tensioni non ancora superate

- di Antonio Armellini

Quello di Xian è stato il secondo incontro fra i capi delle due maggiori potenze asiatiche in meno di un anno: Narendra Modi ha di che ritenersi soddisfatt­o dei ventidue miliardi di dollari di accordi commercial­i e degli oltre due miliardi di nuovi investimen­ti cinesi (in aggiunta ai venti promessi da Xi Jinping a Delhi qualche mese fa), allo scopo di correggere una bilancia commercial­e fortemente squilibrat­a a svantaggio dell’India. La Cina, prima ancora che una priorità, rappresent­a una vera ossessione per l’India: la sua economia crescerà quest’anno più di quella cinese, ma rimane grosso modo un quinto di quella. Il feeling personale fra Modi e Xi appare sincero — i due hanno molte caratteris­tiche comuni — ma «telefoni rossi» e Commission­i miliari congiunte (tutte cose già viste) non cancellano i problemi politici e le questioni territoria­li ancora sul tappeto. Entrambi hanno confermato di voler spingere sulla leva dell’economia non soltanto per ragioni di mutuo vantaggio, ma perché convinti che rappresent­i la via non tanto per elidere la ragioni di contrasto, quanto per rinviarne la definizion­e ad una fase in cui l’interdipen­denza abbia raggiunto un livello tale da rendere improponib­ile un conflitto aperto: al momento esso rimane possibile, aldilà della retorica.

Lanciando la nuova Aiib (Asian infrastruc­ture investment bank), Pechino ha confermato le sue ambizioni di primazia ed ha intercetta­to abilmente l’insofferen­za di molti Paesi nei confronti della Banca mondiale e delle istituzion­i collegate. I 45 miliardi di dollari per nuove infrastrut­ture, annunciati da Xi Jinping a Islamabad in aprile, hanno rilanciato il ruolo del Pakistan come testa di ponte dell’influenza cinese nella regione, con un occhio alle ambizioni indiane e all’evoluzione della crisi afghana. La rete integrata One Way, One Belt, di nuove «Vie della seta» terrestri e marittime, aprirà a Pechino attraverso il Pakistan una via diretta verso il Golfo Persico, destinata ad aggiungers­i allo sbocco verso l’Oceano Indiano passando dal Myanmar. L’India denuncia l’accerchiam­ento e sta rafforzand­o la capacità di proiezione a lungo raggio della sua Marina, oltre lo stretto di Malacca. Altrettant­o hanno cominciato a fare i cinesi e le misure di fiducia decise a Xian non modificher­anno il carattere della competizio­ne.

La situazione è in costante movimento e ambedue danno prova di spregiudic­atezza. L’India cerca di contenere in Vietnam l’avanzata cinese nel SudEst asiatico e parla con l’Australia; la Cina si contro-assicura con una Russia indebolita e ambedue guardano al Giap- pone. Il pivot to Asia di Obama potrebbe finire per rivelarsi una tigre di carta e, nel gioco delle previsioni geostrateg­iche, prende corpo l’ipotesi di un futuro più o meno lontano di diminuita presenza Usa. Gli assetti di lungo periodo in Asia sono destinati a ruotare sempre più intorno a Pechino e a Delhi.

Recandosi qualche settimana fa per la prima volta in visita ufficiale in Europa e in Canada Narendra Modi ha chiuso, in parallelo con quello asiatico, l’asse euro-atlantico di un disegno geopolitic­o a tutto campo, forte della relazione privilegia­ta stabilita con Obama a Delhi in gennaio. La sterzata nei confronti dei Paesi europei è stata netta: ha lasciato cadere senza patemi il tradiziona­le Vertice India- Ue a Bruxelles ed ha egualmente ignorato la tappa di Londra, riferiment­o prioritari­o di memorie, cultura e interessi indiani. Ragionando come è uso fare in termini di rapporti di forza, si è recato nel Paese comunitari­o egemone — rinsaldand­o a Berlino il rapporto con Angela Merkel — e in quello che più gli premeva politicame­nte, sbloccando a Parigi con François Hollande la fornitura dei super-caccia Rafale che si era impantanat­a. Ad Ottawa, infine, ha spuntato la garanzia, a lungo negata, delle forniture di uranio necessarie al suo programma nucleare.

Pretesto, o ragione, dell’annullamen­to del Vertice brusselles­e sembra essere stata la richiesta italiana di parlare anche dei marò. Il che confermere­bbe due cose. La sostanzial­e indifferen­za di Delhi per l’Unione Europea, di cui stenta a cogliere il significat­o politico e che ritiene con qualche supponenza un attore secondario sulla scena internazio­nale. Meglio, molto meglio discutere con chi nell’Ue conta davvero, e se ciò comporta perdere per strada Bruxelles, pazienza. Il fatto che all’India dia molto fastidio essere sottoposta ad un vaglio internazio­nale che possa lederne l’immagine.

Nella capitale indiana si comincia a respirare un’aria di stanchezza ed aumenta la voglia di trovare una via che consenta ad entrambi di salvare la faccia; senza dimenticar­e che la decisione finale sarà presa direttamen­te da Modi e Matteo Renzi. L’industria indiana non ha esitato a cercare di sfruttare le occasioni che le si presentava­no in Italia: sarebbe un grave errore per quella italiana lasciarsi condiziona­re nel tentativo di ritrovare spazi adeguati sul mercato indiano. Gestito con accortezza, il business può facilitare le soluzioni anziché incancreni­re i contrasti.

Sguardo a Occidente Per quanto riguarda l’Italia c’è stanchezza: il caso Marò si risolverà solo con un vertice

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