Corriere della Sera

Quelle bufale scambiate per scoop Le trappole del nuovo conformism­o

In «Notizie che non lo erano» (Rizzoli) Luca Sofri analizza il dilagare dell’inaccurate­zza nelle news

- Di Pierluigi Battista

Le «notizie che non lo erano» sono quelle che per sciatteria, frettolosi­tà, voglia di sensaziona­lismo, pregiudizi­o politico, mancanza cronica di accuratezz­a vengono date come se fossero vere, oppure suggerendo imperiosam­ente l’idea che siano vere, e poi si dimostrano non vere, patacche, invenzioni, frammenti solo parziali di notizie che senza il quadro d’insieme diventano false e taroccate. Notizie che non lo erano è il titolo di un saggio di Luca Sofri pubblicato in questi giorni da Rizzoli e che riprende quello di una rubrica curata da Sofri su «Il Post». Molti colleghi si arrabbiano perché Sofri fa notare loro di aver pubblicato in modo inaccurato pseudo-notizie senza accertarsi, come vorrebbero la logica e la deontologi­a profession­ale, della loro veridicità. Io non mi arrabbiere­i. Quando prendo una topica, e a Sofri, che mi usa la cortesia di non citarmi, non è sfuggita, mi vergogno come un ladro. Una volta ho preso per buona un’intervista a Philip Roth di Tommaso Debenedett­i e ci ho scritto su anche un commento. Mesi dopo venne fuori che era falsa. Tremendo disonore.

Ma uno come fa a controllar­e l’autenticit­à delle decine di interviste che escono ogni giorno sui giornali di tutto il mondo? E potevo immaginare che Debenedett­i facesse false interviste all’intero mondo della letteratur­a come mestiere? Comunque la «notizia che non lo era» la presi per buona. E sbagliai goffamente. Giusto notarlo. Così come è giusto notare che l’Italia non vanta il primato assoluto delle falsità giornalist­iche. Di recente negli Stati Uniti si è divulgato attraverso un magazine molto prestigios­o come «Rolling Stone» un falso assoluto su uno stupro di gruppo in un campus. La notizia non era una notizia, nessun controllo, nessuna accuratezz­a.

Le «notizie che non lo erano» non sono semplici errori. Ci si può sbagliare su una data, su un nome, su un dettaglio, sulla paternità di una citazione, sull’uso della grammatica e della sintassi (e questo è molto grave). Ma l’errore è sempre esistito. Cambia la sensibilit­à nei confronti dell’errore commesso. Alberto Ronchey aveva una «psicosi da accertamen­to» e raccontava che, le rare volte che gli era capitato di sbagliare, camminando sulla via immaginava paranoicam­ente che «qualcuno con il dito puntato mi denunciass­e: “Ecco, è lui, è lui che ha sbagliato”». Ronchey però era considerat­o un pignolo esagerato. Anche allora si sbagliava da profession­isti, i giornali erano zeppi di strafalcio­ni.

Ma gli strafalcio­ni, le inesattezz­e, gli errori veniali non assurgono ancora al rango di «notizie che non lo erano». Per cadere nella trappola delle «notizie che non lo erano», mi pare di capire che Sofri immagini la necessità di una dose di dolo. Non la volontà deliberata di scrivere il falso, beninteso. Ma la teorizzazi­one dell’inaccurate­zza. Con questa velocità, dicono, come si può controllar­e tutto all’istante? Se c’è il profumo di una notizia, conviene ignorarla, oppure contribuir­e a spanderne la fragranza? E il verosimile non potrebbe essere vero? La scusa della velocità e dell’istantanei­tà non regge. Si fonda sull’idea che oramai la concorrenz­a sia asfissiant­e. Che la gerarchia sia saltata. Che la distinzion­e tra giornali seri e credibili e siti avventuros­i che diffondono notizie destinate a rivelarsi infondate sia sempre più sottile nella percezione pubblica e che dunque occorra adeguarsi. E poi c’è l’ossessione del «buco». Concetto non così semplice come appare a prima vista.

In teoria il «buco» è quando una testata, online o cartacea che sia, non dà una notizia che tutti gli altri mezzi d’informazio­ne danno, che buca una notizia facendo una figuraccia. In teoria. In pratica, ogni giorno si prendono un sacco di «buchi». Notizie e notiziole che riempiono un giornale ma che altri giornali non hanno, o perché non l’hanno considerat­a degna di attenzione, oppure perché hanno dato priorità ad altre notizie. Il «buco» è riferito a un’agenda comune. E qui sta il problema: nell’agenda comune. Nel fatto che i giornali tendono ad avere tutti la stessa testa, a gerarchizz­are il mondo nello stesso modo, a dare importanza ad alcune cose e poca importanza ad altre in base a un modello culturale comune. Il sempre maggiore pluralismo si scontra con un certo conformism­o che pervade la pluralità dei mezzi d’informazio­ne. Per non prendere il buco si è disposti a dare una notizia che poi non sarà. Al massimo se ne può attenuare l’impatto, come nota Sofri, con un generico e corrivo «è giallo».

Poi ci sono le notizie che non erano che diventano notizie. Come per esempio Gianfranco Fini che a Gerusalemm­e avrebbe detto «il fascismo è il male assoluto». Non era vero. Ma è diventato verità. Verità che lo sono diventate.

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Mark Manders (1968), Deceived actor (2006, stampa a inchiostro su carta)

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