Huppert la veterana del Festival: sono multipla anche sul set
Un lutto familiare al centro di «Louder than bombs»: il dolore è uno dei temi dominanti della rassegna
La classe operaia va all’Inferno. Disgregata dalla crisi, spaventata dai licenziamenti, disillusa dai sindacati, si ritrova umiliata e offesa da nuove regole feroci messe lì per scardinare ogni garanzia e dignità. Cannes, che aveva aperto con un film ad alto tasso sociale, La tête haute, ieri è tornata a parlare di diritti umani con una storia di lavoro.
Quello che non c’è e quello che bisogna conquistarsi rabbiosamente, a costo di accettare ricatti vessatori e farsi complici di un sistema iniquo. Così pretende La legge del mercato di Stéphane Brizé, applauditissimo grazie anche a un magnifico Vincent Lindon, subito candidato alla Palma per il ruolo dell’operaio Thierry. Che dopo 20 anni si ritrova senza lavoro perché l’azienda ha deciso di trasferire la produzione all’estero.
Attonito l’uomo ascolta la sentenza. A 51 anni non è facile reinventarsi un futuro. «Chi ti assume più? Come mandare avanti la famiglia, provvedere al figlio disabile, pagare il mutuo della casa? — si chiede Lindon —. A Thierry non resta che ricominciare da capo. Accettare l’inaccettabile».
I test spietati, le interviste via skype, le domande trabocchetto durante le selezioni: se il tuo capo ti chiede qualcosa che non ritieni giusto, che fai? Gli chiedo il perché è la risposta, sbagliata, di Thierry.
A furia di dire sì a tutto, stipendio ridotto, mansioni cambiate, orario flessibile, trova un posto da sorvegliante in un ipermercato. Ingaggiato per azzannare chi s’infila in borsa qualcosa che non ha pagato. «E
«In ogni vita sono rinchiuse tante vite, sembra una cosa ovvia ma non lo è». La regina Isabelle non ha bisogno di strafare. Capace come pochi altri interpreti di impersonare sul grande schermo personaggi enigmatici e sfaccettati, sceglie il basso profilo per presentare la fotografa di guerra Isabelle Reed che interpreta in uno dei tre film che l’hanno riportata al festival, Louder than bombs del 40enne norvegese Joachim Trier. È la sua 22esima volta a Cannes, la 22esima in gara, due volte premiata come miglior attrice, per Violette Nozière di Chabrol e La pianista di Haneke. Senza contare quelle nelle sezioni collaterali, e le presenze in giuria che ha guidato nel 2009. «Nessuno è mai stato a Cannes quanto me», ha messo in chiaro con nonchalance prima di approdare sulla Croisette. È qui anche per Valley of Love di Guillaume Nicloux con Gérard Depardieu (che passa in gara venerdì) e Asphalte di Samuel Bencherit, fuori concorso. Tre storie di perdita e amore.
In Louder than bombs (che uscirà in Italia per Teodora) è con la sua assenza che gli altri devono fare i conti: il marito, insegnante con un passato da attore, Gabriel Byrne, e i due figli, Jesse Eisenberg e il giovanissimo Devin Druid. Sopravvissuta ai fronti più pericolosi del mondo, compresa la Siria dove ha realizzato l’ultimo reportage, Isabella è morta a 57 anni in un incidente forse provocato da lei stessa a pochi chilometri da casa, a New York, dove la sua agenzia con il contributo di un giornalista del New York Times sta allestendo una mostra destinata a celebrarne il mito. Una donna di successo. Forte ma anche molto fragile. «La sua caratteristica è di essere multipla. Insieme materna e assente, volitiva e depressa. Dentro a ogni persona possono risuonare tante tonalità. Con le sue fotografie riesce a rappresentare le durezze del mondo ma fa fatica ad affrontare le sue».
I silenzi familiari possono essere più forti delle bombe, come suggerisce il titolo preso in prestito al celebre album degli Smiths. «Una sinfonia familiare che esplora diversi caratteri di diverse generazioni» nelle parole di Trier, alla sua terza prova, la prima girata in inglese. «Un film che parla a tutti — precisa l’attrice — incentrato anche sulle difficoltà di bilanciare affetti e carriera. Il ritmo del lavoro non è quello della vita privata e questo crea delle dissonanze. La casa è il nostro rifugio ma a volte è un territorio ostile».
Un lutto familiare anche alla base di Valley of love. Un suicidio, l’ennesimo a Cannes 68 che ne detiene il record (sullo schermo, s’intende). Quello del figlio di due attori che si ritrovano a 25 anni dal divorzio in California, convocati dalla lettera del figlio che si è tolto la vita. «Andate nella Death Valley e io vi apparirò » . Isabelle e Gérard, praticamene nei panni di loro stessi.
Attrice anche in Asphalte con Valeria Bruni Tedeschi, ma questa volta il personaggio non porta il suo nome. Si chiama Jeanne Meyer, è stata la musa di film d’autore come La femme sans bras, ma è finita con scatoloni e una foto di Mastroianni e Volonté in un condominio di periferia, dove cade dal cielo l’astronauta americano Michael Pitt. «Un’attrice che non ha più voglia di esserlo, per ragioni che non conosciamo», sintetizza. Costretta però a mettersi in gioco da un ragazzino (Jules Benchetrit) che la spinge a rinunciare all’idea di poter interpretare in teatro la giovane Poppea per puntare su Agrippina. Quasi un’imperatrice.