In guerra con ironia
Monelli e Novello, alpini di talento, raccontano il 1915-18 senza retorica
Le minestre! Non si capisce quanto può essere ridicola la retorica guerresca se non si legge un manifesto del 1918 che incitava gli italiani a resistere sotto il titolo «Perché si deve combattere?». E giù immagini di incubi terrificanti in caso di sconfitta. Gli orrori della fame, i contadini obbligati a scavare trincee per gli invasori, «i mariti allontanati dalle mogli, i figli dai genitori», la fine del cattolicesimo distrutto da Guglielmo II… Fino al monito sulla ferocia dei nemici: «Non dimentichiamoci che ai bambini furono tagliate le mani, che le donne furono disonorate, che alle popolazioni vinte, in compenso delle ricchezze rubate, fu concesso di sfamarsi con delle orribili minestre!». Angosciante, per un popolo di pastasciuttari…
Come potevano non sorridere, davanti a quell’enfasi spiritata, un giornalista ironico come Paolo Monelli e uno straordinario umorista come Giuseppe Novello? Il libro La guerra è bella ma è scomoda nasce da lì, dal contrasto insanabile fra la tragedia e l’assurdo, il trauma e il grottesco impastati insieme dalla quotidianità fangosa delle trincee. Una quotidianità rotta, di tanto in tanto, da spari e assalti e boati e urla di dolore e amici fraterni crocifissi dalle mitraglie sul filo spinato. Ma segnata soprattutto da lunghissime, interminabili, snervanti attese. Quelle che i «veci» alpini vivevano ficcando il naso nel fazzolettino verde che la morosa aveva donato loro come pegno d’amore cercando di intuire l’ultimo filo del profumo di violetta e gelsomino. (…)
Paolo Monelli, che avrebbe avuto diritto a restare a casa perché figlio unico, era partito volontario e baldanzoso chiedendo esplicitamente di andare al fronte. (…) Poco tempo dopo, era già col morale basso: «Rubiamo le scatolette di carne ai morti, beviamo alla borraccia dei morti, ci facciamo dei morti parapalle e scaldapiedi». (…)
Spiegherà nel 1929, un decennio dopo la fine del conflitto, nelle pagine finali de La guerra è bella ma è scomoda: «Adesso che siamo tornati, e tanti anni si sono frapposti fra la realtà della nostra vita d’oggi e la visione di ciò che fu la nostra vita allora, ci pare davvero che la guerra non fosse poi tanto scomoda; e rimane aureolata nel nostro ricordo da infinite piccole care cose, che vorremmo ancora rivedere, perché la loro somma significa giovinezza».
Giuseppe «Beppo» Novello no, non si era offerto affatto volontario: «Non sono andato io a cercarle le guerre», racconterà ormai vecchio a Marco Sortegni, della « Domenica del Corriere», «mi hanno trovato loro, con la cartolina precetto». Eppure, ricorderà Giovanni Guareschi che lo chiamava «l’alpinissimo», si fece onore nella Prima guadagnandosi una medaglia d’argento e poi nella Seconda guerra mondiale facendosi «la sua brava campagna di Russia (e bene, perché si guadagnò una seconda meda- glia d’argento)» per concludere la sua storia di combattente in un lager tedesco prima in Polonia e poi in Germania. (…)
Nonostante tutto questo, non c’era nei ricordi del pittore e illustratore, forse il più grande umorista del Novecento, au- tore di libri indimenticabili ( Il signore di buona famiglia, Che cosa dirà la gente?, Dunque dicevamo…) una sola concessione alla retorica reducista imparentata con l’eroismo (…)
Perfino l’epopea della ritirata degli alpini tra le bufere di neve dell’inverno russo assumeva, nei racconti di Novello, un tocco di divina leggerezza: «Ho avuto anche un compagno di coda. Nella steppa avevamo caricato un colonnello sfinito su un cavallo. Io pensai: il cavallo ha una coda, se mi attacco mi tira. Così feci. Nella notte sentii, accanto alla mia, un’altra mano. Ci siamo riconosciuti all’alba. Quella coda che ci aiutò a camminare nella steppa fu la nostra salvezza. E io adesso, invece di avere un fratello di latte, ho un fratello di coda. Fu quella a salvarci la vita».
Come potevano, due amici accomunati da una visione simile del mondo non sorridere di se stessi e delle proprie illusioni messi alla prova dalla Grande guerra e poi dalla retorica mussoliniana? C’è una pagina, in questo libro, che riassume tutto. È dedicata a un «Bando di concorso per quadri storici» promosso nell’agosto 1925 dal ministero della Pubblica Istruzione fascista sulla conquista del Monte Nero.
Tema del bando: «I prodi iniziano nella notte senza luna la faticosa ascesa; piedi nudi, perché le pesanti calzature alpine dai chiodi di acciaio farebbero crollare le pietre, si inerpicano inosservati, insospettati, come capre sulle rocce scoscese (l’ardimento sopisce le sofferenze delle carni maciullate dal sasso), e con l’aiuto delle corde attraversano i profondi crepacci». E che fa Novello? Risponde al tema, dettato dal governo del Duce con intenti celebrativi per l’eroica impresa, con una vignetta beffarda. Dove gli alpini si arrampicano non solo senza scarpe ma anche senza armi, senza braghe, senza mutande… Vestiti un po’ in camicia da notte, un po’ con le ciabatte… (…)
C’è chi dirà: ma come, Monelli non era fascista? Facile dirlo, oggi, ricorda lo storico Angelo Del Boca, che ha dedicato una vita a denunciare i crimini coloniali e non solo del fascismo: «Certo, è vissuto in quegli anni e ha fatto i conti con la realtà dell’epoca. Ma non ricordo un suo articolo infame. Era una bravissima persona. Molto perbene. Molto capace». (…)
Va da sé che due spiriti liberi come loro, superati i traumi e i dolori dei ricordi troppo freschi, rilessero la pomposità che aveva accompagnato la Grande guerra, non solo nei proclami tonanti rivolti alle trincee, ma alla popolazione tutta nelle retrovie, con uno sguardo di affettuosa ma canzonatoria ironia. Ed è lì la magia, intatta a distanza di tanto tempo, de La guerra è bella ma è scomoda. Nel sottile, malinconico, miracoloso equilibrio che lo scrittore e il disegnatore riuscirono a trovare nel descrivere con affettuosa ironia gli eroismi e le debolezze di uomini buttati dentro una cosa spropositatamente più grande di loro.