«Cibo a regola d’arte» Il tempo dei ricordi conquista la Triennale
Week end conclusivo con Oldani, Cracco e Bottura
Tavole straniere Per i food lab domani si impara la cucina israeliana e domenica quella giapponese
Uffa, questa madeleine di Proust, letteraria delizia che rimbalza da una citazione all’altra, immancabile come una pasta fredda a una festa ogni volta che si parla di cibo e di ricordi. Ogni volta che serve una ricetta che ci traghetti all’indietro nel tempo, avvolti in una nuvola di profumi velati di rimpianti. Niko Romito, per esempio, preferisce il pane secco. E si mette in viaggio per la sua personalissima «recherche» cavalcando una Guzzi Stornello Sport rossa: la guida suo nonno guardia forestale, ha cinque anni e sta legato dietro, aggrappato alla sua schiena come una cozza. Su e giù per gli stazzi, in Abruzzo, sulle tracce dei pastori che mangiano certe pagnotte grosse quanto la sua testa, bagnate con uova e pecorino, sotto il sole che batte. È da un’estate così, fatta di polvere e di sobbalzi, aspra e bollente come un forno, che nasce il suo primo, vero piatto: quello che lui chiama il piatto della svolta. Il pancotto «scomposto». Più leggero, più saggio, gli ingredienti cotti a parte.
E allora? Ognuno pesca quel che gli pare dal pentolone dei ricordi. E pazienza se scompone, ricompone, affetta. È la lezione più importante, praticamente una masterclass, di questo «Cibo a regola d’arte», che alla Triennale di Milano si avvia verso un weekend conclusivo, come direbbe Proust (e il topo di Ratatouille) flamboyant. Dove vale tutto e tutti portano qualcosa di buono, come succede in certe cene tra amici. C’è Davide Oldani, che oggi (alle 19) insacca e affetta con Domenico, il salumaio di famiglia. «Ognuno deve poter fare le ricette come vuole, quel che conta è l’ingrediente, non la preparazione. Ciò che importa è tutelare il prodotto e il contadino». Lo chef milanese ne ha abbastanza di campanilismi e di «gastropermalosi» pronti a lanciare anatemi e diktat in nome dei sacri testi della tradizione, ad animare dispute sull’aglio nell’amatriciana o sul burro nel pesto: «Discutiamo per ore di simili dettagli. Ma il punto è un altro. Se parliamo di pesto, ciò che conta è che il basilico sia fantastico».
Un’allegra — ma studiata — anarchia basata su una sola regola: eccellenza delle materie prime. Prodotti, produttori, filiera. Artigianalità che finisce nel piatto. In questi giorni in Triennale il palinsesto di «Cibo a regola d’arte» offre proprio questo. Un menu vario e denso che mescola romanzi e ricette, primi e secondi, conversazioni e lezioni. Un menu che oggi, per esempio, passa da uno sformatino di pecorino (alle 13) a uno spaghettone di Gragnano (alle 16), dal cake design di Renato Ardovino allo showcooking (alle 18) con aperitivo (alle 19) allo spazio De’Longhi di via Borgogna fino al salumaio di Cornaredo che faceva gli insaccati con il papà di Oldani. Sì, lo chef lo sa: questi sono tempi veg, c’è una sensibilità diversa rispetto a un tempo. Ma quell’impasto sul tavolo, l’inverno fuori dalla finestra, chi se lo scorda? «Sarà che da ragazzino mi sentivo un salame anch’io», scherza.
Voglia di mettersi in gioco, in fondo. Come fanno i bambini nei Kid Labs, oggi il pesce, domani il pane, mestoli rotanti, schizzi dappertutto. Al diavolo le macchie. Con la curiosità di rubare un assaggio dai piatti degli altri, bocconi che viaggiano, commenti che s’intrecciano. Perché viva il chilometro zero ma domani, prima del pecorino di Farindola, c’è la cucina israeliana di Ruthie Rousso e domenica mattina, prima dei tortellini di Massimo Bottura, Makiko Sano insegna a preparare il sushi. Cibo e memoria apparecchiati fianco a fianco. Piatti che partono dal passato ma poi decollano verso il futuro come dischi volanti. E questo è il bello del pianeta food.