La scommessa (e i timori) di Palazzo Chigi
Il leader non intende cacciare nessuno, ma è pronto a intervenire sul partito nel partito
Matteo Orfini aveva proposto di portare la PlayStation per batterlo nell’attesa dei risultati elettorali: con questa premessa Renzi si è avviato verso Roma, aspettando i primi exit poll de La7 che non coincidono, in realtà, con quelli del Nazareno.
Un occhio alla disfida con il presidente del Pd, l’altro rivolto al partito, o meglio, a quella fetta della minoranza che ha giocato per farlo «perdere». E che alla fine ha «rivitalizzato Grillo», facendo un «capolavoro».
«Dopo le elezioni — ha spiegato Renzi ai collaboratori — bisognerà ragionare tutti sul modo in cui si sta insieme nel Pd e sulla lealtà e i vincoli d’appartenenza a una stessa comunità politica. C’è il rispetto delle regole e il rispetto tra di noi che siamo sulla stessa barca».
Non caccerà nessuno, Renzi, però non ritiene più «accettabile» che ci si comporti come «una corrente organizzata» dentro il Pd e che un gruppo compatto «come un partito dentro un partito» voti «contro riforme che il governo considera delle priorità».
No, per come la vede lui «gli interessi di corrente non possono prevalere rispetto a quelli di partito». A meno che non si esca. Cosa sempre possibile. Come è stato possibile — e fattibile — che «una parte della Cgil abbia fatto campagna a favore dell’astensionismo in Veneto», anche se prima della sua segreteria ha sempre fatto un battage pubblicitario al Pd.
«Ecco — racconta con un sorriso amaro il segretario ai collaboratori — queste sono le condizioni nelle quali ha dovuto giocare il mio Pd». Con un pezzo dei Democrats che tifava perché «perdessero il governo il Pd».
E il pensiero del premier a questo punto va, inevitabilmente, non solo a Bindi, ma anche ai Bersani, ai Fassina, ai D’Attorre. A coloro che non aspettavano altre che il cinque a due per dargli addosso.
Fosse stato per lui, Renzi avrebbe (e ancora, in realtà vorrebbe) scindere il suo destino e quello dei nuovi parlamentari da quello del suo predecessore alla guida del Pd e della vecchia guardia.
«Pensando di colpire me, erano pronti a colpire il loro partito. Questo è tafazzismo purissimo. Se noi veramente dovessimo perdere in Liguria, loro come lo spiegherebbero ai nostri militanti e ai volontari delle feste dell’Unità?». E ancora: «Ma anche se vincessimo, alla fine, loro che potrebbero dire? Avremmo preferito perdere? In Liguria tifavamo per un altro? Hanno addirittura delegittimato l’Antimafia pur di far perdere Renzi?».
Il quale Renzi, si sa com’è fatto. Lui non va mai indietro. Semmai fa un passo di lato, se gli serve. In questo caso no. E quindi dritto, come se nulla fosse: «Accelererò sull’azione di governo e consoliderò il partito». Non sono solo due frasi di prammatica. Lui le spiega così: «Per quanto riguarda il governo, ormai le riforme istituzionali sono avviate, lo stesso vale per la scuola e il lavoro. Ora ci vuole un forum sulla delega fiscale e la riforma della Pubblica amministrazione». Per il premier non esistono altre scorciatoie: «L’idea è davvero quella di arrivare al 2018, a meno che non succeda chissà che cosa». Insomma, la strada è indicata, nonostante la sconfitta che gli exit poll gli attribuiscono il Liguria.
E la data indicata dal premier ha un significato ben preciso: «Bisogna avere il tempo di far percepire gli effetti delle riprese e delle riforme».
Il secondo versante è proprio il partito, che lui vorrebbe in un modo e che sta già immaginando in un prossimo futuro: «Tanto — spiega ai collaboratori — con la minoranza dura e pura non c’è niente da fare. Avete letto l’intervista di Bersani al Corriere? Ma quella roba conta al massimo il 10 per cento, il resto del Pd va consolidato. E quindi ci vuole il pieno coinvolgimento dei nostri ex oppositori e un uomo forte alla guida del Partito democratico». Di nuovo tutti si chiedono. Luca Lotti? La successiva domanda, visto l’enorme mole di lavoro che svolge, è questa: non dormirà più tre ore a notte ma due?
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