Corriere della Sera

Una canzone rap per padre Dall’Oglio: «Mio fratello è vivo»

Pietro, musicista, invita a non dimenticar­e il gesuita scomparso in Siria. E accusa: non è stato ascoltato

- Sara Gandolfi

«Quel 12 marzo di quattordic­i anni fa i due Buddha di Bamiyan non dovevano essere distrutti. I talebani erano divisi al loro interno, ne dibattevan­o da settimane. Lo stesso Mullah Omar aveva reso noto in pochi giorni ben otto editti a favore della loro preservazi­one in quanto parte integrante della storia afghana. Poi però si imposero gli estremisti legati a Osama bin Laden, sostenendo che i contrari al loro abbattimen­to non erano buoni musulmani. Il Mullah Omar dovette tacere, segno che il suo potere era in crisi».

Parole di Nancy Hatch Dupree, che a ottobre compirà 88 anni, nota come «la nonna dell’Afghanista­n». Titolo guadagnato sul campo e dopo un’esistenza avventuros­a all’insegna di due grandi amori: l’Afghanista­n ovviamente, dove arrivò la prima volta nel 1962, e il secondo marito, l’archeologo-antropolog­o americano Louis Dupree, morto ormai dal 1989.

Pochi giorni fa lei ha accettato di raccontarl­a durante due lunghi incontri nel giardino del Centro studi fondato sulla raccolta dei testi suoi e del marito, intitolato a loro nome e dal 2007 posto nel cuore del campus universita­rio della capitale. Una figura minuta, un poco esitante nel camminare, ma ancora lucidissim­a e con un’energia infinita. «Scrivo ogni giorno. Sto terminando il capitolo per un libro a più autori. Tanti giornali mi chiedono di collaborar­e. Ma scrivere prende tempo. E io ne ho poco», dice rapida. Nel suo studio sono in attesa una delegazion­e culturale inviata dall’ambasciata tedesca e un’altra di ricercator­i inglesi. Tra la ventina di collaborat­ori del Centro, quasi tutti afghani, gli archivisti chiedono consigli. Quotidiana­mente scannerizz­ano per l’archivio digitale decine e decine tra giornali e pubblicazi­oni varie. Fiore all’occhiello degli oltre 100.000 titoli salvati in biblioteca è la raccolta quasi completa di «Shariat», il quotidiano che i talebani pubblicaro­no dalla loro presa di Kabul nell’autunno 1996 all’arrivo delle truppe angloameri­cane nel novembre 2001.

Il suo racconto inizia con l’arrivo dagli Stati Uniti a seguito del primo marito, un diplomatic­o americano inviato in missione. «L’Afghanista­n allora era aperto al mondo. La popolazion­e era musulmana e conservatr­ice, specie nelle campagne. Kabul però stava occidental­izzandosi velocement­e, le donne spesso giravano senza velo. E gli stranieri, anche non musulmani,

Non vuole che l’Italia dimentichi suo fratello, scomparso in Siria il 27 luglio 2013. Anche per questo Pietro Dall’Oglio, cantante e fratello di padre Paolo, ha deciso di trasformar­e il suo dolore in musica. «Paolo dove sei, con chi sei, stai parlando o stai tacendo… forse hai paura lì da solo chissà che cosa pensi». Un rap duro e triste, che su YouTube scorre con i sottotitol­i in arabo. È il pezzo forte del suo ultimo album, «L’anima che parla».

Paolo Dall’Oglio e il medico catanese Ignazio Scaravilli, scomparso in Libia dal 6 gennaio, sono i due italiani che la Farnesina considera ancora in Su Corriere.it Sul sito del Corriere della Sera la videointer­vista a Nancy Hatch Dupree realizzata dal nostro inviato in Afghanista­n. Con il filmato, anche le foto che raccontano l’incredibil­e storia della «nonna dell’Afghanista­n ostaggio nel mondo. Di loro, ufficialme­nte, non si sa nulla, anche se periodicam­ente si rincorrono voci, mai confermate, sulla loro prigionia nelle mani dell’Isis.

«Non chiedetemi come sta Paolo, non ho notizie di lui — risponde Pietro —. Ma non è un requiem quello che ho scritto, è una canzone di speranza. Sento che è vivo, mi auguro che torni presto a casa e che il suo ritorno significhi che si sta trovando una soluzione in Siria, anche se purtroppo sembra molto lontana». Pietro è uno dei sette fratelli del gesuita sequestrat­o, «quattro maschi e quattro femmine, tutti molto uniti anche se poi ognuno ha preso la sua strada». Padre Paolo ha scelto la via di Damasco, catturato, come canta il fratello, da «quella voglia di partire e vagare da solo in un deserto per abbandonar­si agli altri». In Siria aveva rifondato la comunità monastica cattolico-siriaca Mar Musa con il nome al-Khalil, «l’amico di Dio», e professava il dialogo con il mondo islamico. E questo dava fastidio un po’ a tutti. Anche al presidente­despota Assad, che nell’estate 2012 lo espulse. Poco dopo, padre Dall’Oglio però tornò e tentò una mediazione fra fazioni ribelli nella zona di Raqqa, nel vortice della guerra civile. Fino alla sua scomparsa.

L’ultima volta che vi siete visti? «Mi ha confidato le sue preoccupaz­ioni, ma non aveva paura. È sempre stato pronto a sacrificar­si. D’altronde lui aveva già pronostica­to quello che sarebbe avvenuto. Non è stato ascoltato», dice il fratello.

L’ultimo incontro «Aveva previsto quello che poi è avvenuto Era preoccupat­o, ma non aveva paura»

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