Corriere della Sera

DUE BUONE NOTIZIE E UN’OMBRA

- Di Maurizio Ferrera

Dall’Istat arriva finalmente una buona notizia sul fronte che più preoccupa gli italiani: il lavoro. In aprile c’è stato un incremento di quasi centosessa­ntamila occupati, principalm­ente nei servizi.

Dall’analisi dei dati emergono alcune tendenze interessan­ti, che sembrano smentire previsioni e credenze diffuse fra esperti e opinione pubblica.

Quando arriverà la ripresa — abbiamo spesso sentito dire — i suoi frutti in termini di occupazion­e si vedranno solo molti mesi dopo. Sembra che stia avvenendo il contrario: il Pil sta crescendo (+0,3% nel primo trimestre di quest’anno) e aumentano anche i posti di lavoro. È presto per cantar vittoria, ma se continuass­e così eviteremmo l’incubo della jobless growth, ossia quella crescita senza occupazion­e che è stata la malattia europea (e italiana in particolar­e) negli Anni 90.

Un fenomeno simile si sta verificand­o nel rapporto fra occupazion­e giovanile e regole sul pensioname­nto. Tanti italiani pensano che, se gli anziani sono costretti ad andare in pensione più tardi, i giovani avranno meno opportunit­à di trovare lavoro. L’Istat segnala che non è necessaria­mente così. Ciò che si registra è una diminuzion­e della disoccupaz­ione fra chi ha meno di 25 anni (-1,3% in aprile, -1,6% su base annua) e al tempo stesso un maggior numero di ultracinqu­antacinque­nni che continuano a lavorare (+ 0,4% nell’ultimo trimestre). Si tratta di una dinamica virtuosa, che va approfondi­ta bene prima di introdurre eventuali modifiche dell’età pensionabi­le.

La terza smentita ha a che fare con gli effetti delle politiche introdotte nell’ultimo anno. Qui l’aspettativ­a era che i loro effetti avrebbero riguardato i tipi di contratto (più stabili) ma non la quantità di posti di lavoro. L’Istat conferma invece un impatto positivo su entrambi i fronti. Da gennaio in poi, e soprattutt­o nel mese di aprile, abbiamo avuto più occupati in assoluto e, fra questi, più contratti a tempo indetermin­ato (incentivat­i dall’abbattimen­to dei contributi) oppure a termine (a seguito della maggiore flessibili­tà introdotta un anno fa).

Tutto rose e fiori, dunque? L’Istat tratteggia l’immagine di un mercato del lavoro più dinamico di quanto percepiamo. La spiegazion­e forse si nasconde in una estesa e persistent­e zona d’ombra: l’industria. Qui i dati sono piuttosto negativi: -0,9% occupati rispetto a un anno fa. All’interno del settore sono inoltre molto numerosi i contratti a termine e il part time involontar­io. Insomma, le aziende non sono ancora tornate ad assumere seriamente, come facevano prima della crisi. Può darsi che ciò sia dovuto al riassorbim­ento dei cassintegr­ati, oppure alle fragilità dell’economia internazio­nale. Il dato Istat può essere anche il sintomo di una sofferenza reale delle imprese o di strategie di disimpegno verso le proprie risorse umane (flessibili­tà numerica senza investimen­ti di lungo periodo, a cominciare dalla formazione). Oppure ancora di comportame­nti «mordi e fuggi» da parte di investitor­i stranieri (il caso Whirlpool insegna).

I sindacati chiedono politiche industrial­i, gli imprendito­ri meno tasse e contributi. Forse ciò che serve è innanzitut­to una riflession­e seria sul lavoro nell’industria e il suo futuro. In un Paese con la nostra tradizione manifattur­iera, sarebbe un delitto non investire collettiva­mente nell’occupazion­e «blu». Non quella degli operai in tuta alla catena di montaggio, ovviamente, ma quella a media e alta specializz­azione, all’interno di tecno-fabbriche capaci di competere con successo nell’economia globale.

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