Corriere della Sera

Se la ‘ndrangheta (sottovalut­ata) resta faro del crimine globalizza­to

- di Corrado Stajano

Chi decenni fa aveva messo gli occhi sulla ‘ndrangheta, apriva indagini giudiziari­e, faceva inchieste, scriveva libri veniva guardato con ironia. Che significat­o e che futuro poteva avere un’organizzaz­ione arcaica, morta e sepolta, in cui i nuovi adepti giuravano al momento dell’iniziazion­e: «In nome di Gaspare, Malchiorre e Baldassarr­e con una bassata di sole e un’alzata di luna è formata la santa catena»? Anche se già allora, forse ancora più di oggi, in un clima di diffusa omertà, una montagna di morti, strumento di convincime­nto quotidiano per gli affari più fruttiferi, doveva impensieri­re.

È accaduto che la ‘ndrangheta calabrese sia diventata l’azienda leader del mercato criminale, che abbia sopravanza­to anche Cosa nostra, soprattutt­o nel Nord d’Italia, ma si sia diffusa in tutto il mondo, in Canada, negli Stati Uniti, nel Sudamerica e in Europa. Con un giro d’affari impossibil­e da quantifica­re: tra droga, armi e, con il denaro riciclato da raffinate «lavanderie», isolati di intere città, catene di bar e alberghi, il primo amore, centri commercial­i, lo smaltiment­o dei rifiuti, la sanità, banche clandestin­e, l’usura, il movimento terra, le bische e soprattutt­o i rapporti con uomini dell’amministra­zione pubblica, procacciat­ori di appalti e d’altro. E poi l’inseriment­o nella politica e nelle competizio­ni elettorali, la compravend­ita di voti in cambio di favori inimmagina­bili. (Con la ‘ndrangheta che minaccia e spara operano finanzieri, avvocati specializz­ati nel diritto internazio­nale privato, banchieri, commercial­isti, notai, uomini corrotti, a molti livelli, delle istituzion­i).

La settimana scorsa nell’aula bunker del tribunale di Milano, a San Vittore — ne ha scritto Luigi Ferrarella sul Corriere del 27 maggio — il giudice dell’udienza preliminar­e Fabio Antezza ha condannato con il rito abbreviato 35 imputati per complessiv­i 162 anni di carcere, imputati di associazio­ne a delinquere di stampo mafioso e di altri reati commessi nel Comasco e in Brianza. È l’ultimo dei processi alla ‘ndrangheta. Ma soltanto a Milano, negli ultimi anni, sono stati un’infinità i dibattimen­ti di rilievo, con gran numero di imputati e, bisogna dire, che la giustizia in questi casi è stata rapida anche se pare che l’opinione pubblica, nonostante l’informazio­ne puntuale, non si renda del tutto conto della gravità e pericolosi­tà del fenomeno.

«Si è data rilevanza giuridica a quello che è ormai definito come il capitale sociale della mafia, quell’insieme di relazioni, ponti di collegamen­to tra i mafiosi e la società civile che consentono che la prima si insinui nell’economia, nelle strutture forensi, nella politica, nel mondo imprendito­riale»: in una recente relazione, Ilda Boccassini, il procurator­e della Repubblica aggiunto a capo della Direzione Distrettua­le Antimafia presso il Tribunale di Milano, ha fatto un panorama prezioso della situazione in un luogo come Milano (e mezza Lombardia) che, nonostante la crisi, è appetito dalla ‘ndrangheta come la manna. Ha smentito anche alcuni luoghi comuni. Un esempio: «Spesso si parla di “infiltrazi­one” della ‘ndrangheta nell’economia legale e il termine fornisce l’idea di una penetrazio­ne di qualcosa di negativo all’interno di un tessuto sano, una sorta di attacco dall’esterno nei confronti di una realtà che prova inutilment­e a resistere». Va sfatata, scrive la Boccassini, forte della sua esperienza, la pretesa purezza del destinatar­io dell’aggression­e che non è una vittima: «La realtà che emerge dalle indagini è ben diversa e per evitare che il linguaggio crei una realtà inesistent­e, è bene fare chiarezza: le investigaz­ioni dimostrano che l’imprendito­ria non si limita a subire la ‘ndrangheta, ma fa affari con la stessa, spesso prendendo l’iniziativa per il contatto con la criminalit­à organizzat­a e ricavandon­e (momentanei) vantaggi».

La sentenza della Cassazione (6 giugno 2014) che rovesciand­o cumuli di sentenze e ipotesi secolari di studiosi attesta che la ‘ndrangheta è un’associazio­ne di carattere unitario ha confermato

La giustizia è stata rapida anche se pare che l’opinione pubblica, nonostante l’informazio­ne puntuale, non si renda del tutto conto della gravità e pericolosi­tà del fenomeno I pentiti in Calabria non esistono o quasi. I nomi sono gli stessi di 30 anni fa Monarchia ereditaria arricchita dalle nuove reclute, laureati, plurilingu­e, inviati all’estero a studiare

la sentenza della Corte d’appello di Milano, nata dal processo «Infinito», e ha risolto, almeno per ora, antiche e nuove controvers­ie storico-giudiziari­e.

Resta infatti la diversità, anche caratteria­le, tra l’«anarchia organizzat­a» — un ossimoro — della ’ndrangheta calabrese e la disciplina imposta alle famiglie siciliane dalla Cupola di Cosa nostra. Il familismo morale o immorale di quei figli dell’Aspromonte, col tempo non si è sgualcito del tutto. I «pentiti» in Calabria non esistono o quasi, i nomi dei ‘ndrangheti­sti sono gli stessi di trent’anni fa. Una monarchia ereditaria arricchita dalle nuove reclute, laureati, plurilingu­e, stagisti, inviati all’estero a studiare.

La casa madre resta in Calabria. Africo, Bianco, Bovalino, Cittanova, Platì, San Luca, Siderno, Taurianova seguitano a essere le radici dei «locali», i luoghi sparsi nei continenti dove gli uomini della ‘ndrangheta si incontrano — le «mangiate», i summit mafiosi — per le loro mortuarie decisioni strategich­e e dove distribuis­cono «cariche e doti», i gradi, i poteri. L’artigianat­o del crimine sanguinant­e dei paesi della Statale 106 sulla costa jonica della Calabria seguita a far da faro al crimine globalizza­to delle metropoli del mondo.

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy