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Leggenda narra che ci vollero 11 anni di errori per arrivare a produrre il nylon. E pare che l’acronimo del nome volesse dire: Now You Lose Old Nippon, adesso hai perso vecchio Giappone, perché il materiale permetteva di sostituire l’orientale seta (gli americani avrebbero utilizzato il nylon per la tela dei paracadute, oltre che per quell’arma di seduzione di massa che sarebbero diventati i collant). «L’esempio è perfetto per spiegare l’importanza dell’errore nelle attività creative», suggerisce il sociologo del lavoro Domenico De Masi, che però non riconosce il diritto a sbagliare nelle attività «meramente esecutive»: «Vale per la badante così come per l’operaio a una catena di montaggio». Eppure è anche quel «diritto all’errore» che un dipendente su due si vede riconosciuto dal suo superiore, secondo i dati del Barometro Ipsos 2015 raccolti per Edenred, a costituire l’impianto di una nuova organizzazione del lavoro e di una nuova cultura manageriale. Ma non siamo già abbastanza tolleranti all’errore nel Paese di Schettino? Forse no, per due motivi. Concedersi il diritto di sbagliare significa riconoscersi quello di apprendere dall’esperienza: chi non fa, non sbaglia. E non temere una reazione «punitiva» da parte del capo incoraggia il dipendente a chiedergli
Il film consigli o chiarimenti. «Il vecchio modello di leadership autoritaria rende schiavo il dipendente, al contrario uno nuovo trasforma gli errori in opportunità per tutti», dice lo psicologo del lavoro Andrea Castiello D’Antonio. Soltanto l’errore «sposta in avanti i limiti», aggiunge il docente bocconiano Vincenzo Perrone. «Purché non sia frutto di disaffezione e di disattenzione». Alto rischio, visto che secondo Barometro Ipsos solo il 26% degli italiani è soddisfatto del suo lavoro e la fedeltà all’azienda nasce dal fatto che il 77% crede di non potersi ricollocare in fretta. In fin dei conti investire in fiducia conviene a tutti (certo, se non avete assunto Homer Simpson).