FORMARE INNOVATORI LA VERA SFIDA DELLA SCUOLA
Caro direttore, o si trova lavoro e si vive di relazioni, o ci si abitua ad accettare e misurare il merito. È questo, secondo molti osservatori, il bivio di fronte al quale il nostro Paese si trova mentre discute su temi quali il merito e la riforma della scuola.
Tutte le società vivono più o meno di relazioni, e questo accade anche negli ultra competitivi Usa: figuriamoci nel Paese dei comuni e dei rioni, dove per secoli si è vissuti divisi per clan e dove la mobilità sociale è prossima allo zero. I gruppi tendono a restare chiusi e riprodursi al loro interno. Può una società progredire per clan? Sì, certo: ma sarà un progresso lento, perché i gruppi di relazione saranno disposti a privarsi degli individui più talentuosi e creativi pur di proteggere i propri membri e i loro figli. I gruppi con più risorse camperanno meglio e più a lungo, ma saranno sempre destinati a impoverirsi. È, in fondo, il problema delle imprese familiari e degli imprenditori cosiddetti di terza generazione, la cui stragrande maggioranza è destinata a sperperare quanto i padri pionieri seppero costruire. Una società divisa in clan è una società chiusa, che non si espone al mondo e non ne coglie le diversità. Manca il pluralismo delle idee, manca la competizione. È destinata a naufragare, come sta succedendo al nostro Paese: basti guardare alla diaspora giovanile dai piccoli comuni.
Resta dunque la via del merito, e quindi della valutazione, cioè della misurazione delle performance di docenti e discenti. Ma la valutazione dovrebbe anche riguardare la Pubblica amministrazione, la magistratura e chi scrive le leggi, o chiediamo troppo? È giusto valutare? La risposta è sì, e da molti punti di vista: moralmente, perché consente a chi lavora più duramente ed è più brillante di emergere e avere maggiori opportunità; pragmaticamente, perché consentirebbe a una società di beneficiare del contributo degli individui più brillanti. Allora evviva il merito, e diciamo chiaramente che chi vi si oppone è in realtà a favore di una società chiusa e poco mobile.
Occorre tuttavia stabilire come si misura e si riconosce il merito. Sulle performance dei bimbi/studenti alle prese con i programmi ministeriali? O su quelle che avranno quando entreranno nel mondo del lavoro? Su quello che faranno da grandi, cioè sul segno che lasceranno su questa Terra? Come avremmo misurato Steve Jobs, cofondatore di Apple, e Bill Gates, colonna di Microsoft, due che a scuola ci sono andati poco? E Sergey Brin e Larry Page, inventori di Google, Jeff Bezos di Amazon, e Jimmy Wales di Wikipedia, che hanno frequentato una Montessori, dove non si ama valutare? Misurare non è dunque così semplice, perché crea una competizione aggressiva e fine a se stessa, perché esclude, o perché non riesce a scovare il potenziale di ciascun discente.
Negli Usa, patria del merito, i quiz, i test, e tutte le prove che misurano le performance degli studenti stanno finendo sotto accusa perché valuterebbero il sapere mnemonico e mancherebbero di riconoscere la capacità di risolvere problemi. A Google ora si assume senza guardare solo al voto o alla laurea, ma valutando la capacità di affrontare questioni complesse. Il mercato sta andando in quella direzione. Una società dove il sapere è condiviso non vuole esecutori ma creativi, curiosi e intraprendenti, in altre parole innovatori.
Si possono coltivare e valutare gli innovatori? Sì, ma serve una scuola diversa, che metta lo studente al centro e dove l’insegnante non si limiti a trasmettere sapere, ma diventi leader, motivatore, coordinatore. Questo oggi può avvenire in scuole d’élite, cioè di privilegiati (intellettualmente o economicamente). E gli altri? Questa è la risposta che deve saper dare un buon governo, con coraggio, senza paura di sindacati e burocrati che progettano la scuola senza uscire dal ministero. Ma una simile visione, per ora, non sembra esserci.