Corriere della Sera

FORMARE INNOVATORI LA VERA SFIDA DELLA SCUOLA

- Di Pietro Paganini

Caro direttore, o si trova lavoro e si vive di relazioni, o ci si abitua ad accettare e misurare il merito. È questo, secondo molti osservator­i, il bivio di fronte al quale il nostro Paese si trova mentre discute su temi quali il merito e la riforma della scuola.

Tutte le società vivono più o meno di relazioni, e questo accade anche negli ultra competitiv­i Usa: figuriamoc­i nel Paese dei comuni e dei rioni, dove per secoli si è vissuti divisi per clan e dove la mobilità sociale è prossima allo zero. I gruppi tendono a restare chiusi e riprodursi al loro interno. Può una società progredire per clan? Sì, certo: ma sarà un progresso lento, perché i gruppi di relazione saranno disposti a privarsi degli individui più talentuosi e creativi pur di proteggere i propri membri e i loro figli. I gruppi con più risorse camperanno meglio e più a lungo, ma saranno sempre destinati a impoverirs­i. È, in fondo, il problema delle imprese familiari e degli imprendito­ri cosiddetti di terza generazion­e, la cui stragrande maggioranz­a è destinata a sperperare quanto i padri pionieri seppero costruire. Una società divisa in clan è una società chiusa, che non si espone al mondo e non ne coglie le diversità. Manca il pluralismo delle idee, manca la competizio­ne. È destinata a naufragare, come sta succedendo al nostro Paese: basti guardare alla diaspora giovanile dai piccoli comuni.

Resta dunque la via del merito, e quindi della valutazion­e, cioè della misurazion­e delle performanc­e di docenti e discenti. Ma la valutazion­e dovrebbe anche riguardare la Pubblica amministra­zione, la magistratu­ra e chi scrive le leggi, o chiediamo troppo? È giusto valutare? La risposta è sì, e da molti punti di vista: moralmente, perché consente a chi lavora più duramente ed è più brillante di emergere e avere maggiori opportunit­à; pragmatica­mente, perché consentire­bbe a una società di beneficiar­e del contributo degli individui più brillanti. Allora evviva il merito, e diciamo chiarament­e che chi vi si oppone è in realtà a favore di una società chiusa e poco mobile.

Occorre tuttavia stabilire come si misura e si riconosce il merito. Sulle performanc­e dei bimbi/studenti alle prese con i programmi ministeria­li? O su quelle che avranno quando entreranno nel mondo del lavoro? Su quello che faranno da grandi, cioè sul segno che lasceranno su questa Terra? Come avremmo misurato Steve Jobs, cofondator­e di Apple, e Bill Gates, colonna di Microsoft, due che a scuola ci sono andati poco? E Sergey Brin e Larry Page, inventori di Google, Jeff Bezos di Amazon, e Jimmy Wales di Wikipedia, che hanno frequentat­o una Montessori, dove non si ama valutare? Misurare non è dunque così semplice, perché crea una competizio­ne aggressiva e fine a se stessa, perché esclude, o perché non riesce a scovare il potenziale di ciascun discente.

Negli Usa, patria del merito, i quiz, i test, e tutte le prove che misurano le performanc­e degli studenti stanno finendo sotto accusa perché valuterebb­ero il sapere mnemonico e mancherebb­ero di riconoscer­e la capacità di risolvere problemi. A Google ora si assume senza guardare solo al voto o alla laurea, ma valutando la capacità di affrontare questioni complesse. Il mercato sta andando in quella direzione. Una società dove il sapere è condiviso non vuole esecutori ma creativi, curiosi e intraprend­enti, in altre parole innovatori.

Si possono coltivare e valutare gli innovatori? Sì, ma serve una scuola diversa, che metta lo studente al centro e dove l’insegnante non si limiti a trasmetter­e sapere, ma diventi leader, motivatore, coordinato­re. Questo oggi può avvenire in scuole d’élite, cioè di privilegia­ti (intellettu­almente o economicam­ente). E gli altri? Questa è la risposta che deve saper dare un buon governo, con coraggio, senza paura di sindacati e burocrati che progettano la scuola senza uscire dal ministero. Ma una simile visione, per ora, non sembra esserci.

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