Maigret, l’investigatore plebeo (che comprende e non giudica)
La nuova collana presenta trenta romanzi del celebre commissario creato da Georges Simenon Gli umori, i gusti e l’«abito» sono quelli di un grigio funzionario Ma la sua filosofia è una nobile pietas: per lui tutti sono vittime
fatti possono concedersi il lusso di essere — o di sembrare — complicati. Gli uomini, invece, sono sempre più semplici di quanto ci si immagini». È una pagina di Maigret a New York: la mente del commissario rumina, Georges Simenon trascrive il dialogo interiore. Ancor più che semplice, il protagonista dell’imponente ciclo poliziesco (75 romanzi e 28 racconti) è ciò che sembra, un uomo «très ordinaire», molto ordinario. Tutto è medio nella sua vita, a cominciare dall’età, un’infinita mezza età: esordisce a 45 anni (in Pietr il Lettone, 1931) e nell’ultimo caso ( Maigret e il signor Charles, 1972) ne ha 53 e mezzo. Ama la tavola, ma predilige i piatti popolari; non beve champagne, ma sa apprezzare un calvados invecchiato, eppure anche una simile squisitezza gli fa venire la voglia di «qualcosa di più volgare e dissetante» ( Maigret e la vecchia signora) come una birra fresca. O un bicchiere di beaujolais, magari servito nelle piccole brocche di grès.
La sua faccia è carnosa, come modellata in una creta compatta a vigorosi colpi di pollice, ed è il degno coronamento di un corpo alto un metro e ottanta, pesante cento chili. La struttura tarchiata e plebea, solida come il granito, di un facchino delle Halles. Ha i capelli ispidi di un castano scuro dove si distingue appena qualche filo bianco sulle tempie e si rade ogni mattina (ne La casa del giudice lampeggia il ricordo di un Maigret magro, con lunghi baffi a punta e la barba a pizzo). D’inverno indossa un enorme cappotto nero dal collo di velluto e la bombetta, portata un po’ all’indietro. La cravatta non è mai annodata per bene e sotto la giacca si intravedono le bretelle: in Firmato Picpus ne indossa con imbarazzo un paio di seta color malva, recente dono della moglie. Non porta quasi mai la pistola, ma ha sempre in tasca un taccuino da pochi soldi su cui scrive — quelle rare volte che lo fa — lentamente, a grandi lettere inclinate, con lunghe pause tra una frase e l’altra. La stessa lentezza con cui riempie la pipa di modesto trinciato forte. Non gli piace correre. All’auto di servizio, in città, preferisce l’autobus, dalla cui pedana può osservare il mondo. Detesta i night-club. Il cinema lo attrae, ma gli unici film che gli piacciono, perché lo fanno sbellicare dalle risa, sono quelli comici, tipo Laurel e Hardy.
Nato nel 1887 a Saint-Fiacre di Matignon, nel Dipartimento dell’Allier, Jules Amédée Anthelme Joseph François Maigret entra in polizia interrompendo gli studi di medicina a causa della morte del padre Evariste, per anni intendente del castello dei conti. Una delle inchieste più note ( Il caso Saint-Fiacre)
Protagonisti
In alto: Georges Simenon al suo tavolo di lavoro nel castello di Echandens. Qui sopra: il commissario Jules Maigret in un’illustrazione di Ferenc Pintér: le copertine dei volumi sono tutte disegnate dal maestro italiano lo riporterà in quel luogo, carico di nostalgia e più vulnerabile che mai. Passa dalla buoncostume alla narcotici, dalla municipale alla ferroviaria, abbandonando lungo la strada la fiducia nell’intuito e nell’intelligenza, fino a diventare commissario capo, e il più anziano della «ditta», come chiama Quai des Orfèvres, la sede della polizia giudiziaria: la stessa bonomia che oggi un politico molto simenoniano come Pierluigi Bersani riserva a via del Nazareno. Tutti, nella «ditta», conoscono la sua calma e la sua ira; gli interrogatori notturni corroborati da birre e panini; quei silenzi e quell’aria distratta che gli fa calare sul volto una maschera di ottusità quando è immerso in un caso; le risposte stizzite agli sprovveduti che vogliono conoscere i suoi pensieri («Io non penso mai»); quei momenti in cui dopo essersi impregnato dell’atmosfera di un certo ambiente comincia a gonfiarsi come se la verità gli fermentasse dentro.
E poi c’è Louise, la moglie. Mme Maigret, per Simenon. Donna alsaziana che ha mantenuto il candore della ragazza di campagna. Che lo accoglie sempre con un bacio, senza fare domande. Che gli riempie il piatto di qualche intingolo dal profumo invitante. Non hanno figli («Ho avuto solo una bambina, che però è morta»: da La chiusa n. 1): è il loro unico rimpianto, ma si vede che non era destino... Vivono in un appartamento parigino al 130 di boulevard Richard-Lenoir: lo stesso su cui all’inizio dell’anno gli islamisti hanno sterminato la redazione di «Charlie Hebdo». È un nido piccolo e fin troppo quieto, con i mobili di quercia scura, il lampadario che pende sul tavolo rotondo della sala, le tende di tulle, la trapunta di seta rossa del letto matrimoniale che spicca nella camera tappezzata di carta con le rose.
Simenon ha creato un personaggio che sembra l’antitesi di sé. Uno giramondo, l’altro stanziale. Uno anarchico, l’altro funzionario dello Stato.
Nel 1998, Giulio Nascimbeni, signore della terza pagina del «Corriere», racconta l’incontro con lo scrittore avvenuto a Losanna nell’85 in occasione dell’uscita per Adelphi di Lettera a mia madre. Superata l’ottantina, Simenon ha ormai «abbassato la saracinesca con i giornalisti». Ma le cose prendono subito la piega giusta e mentre nell’aria piroetta l’aroma affumicato di un Vin de LadoucellePouilly («È della Loira, dalle parti dove è nato Maigret», dice il padrone di casa allungando il bicchiere di bianco all’ospite italiano), Nascimbeni parte con la prima domanda: «Si è o non si è identificato nel commissario?». Risposta: «Di veramente mio ho dato a Maigret una regola fondamentale della mia vita: comprendere e non giudicare, perché ci sono soltanto vittime e non colpevoli».