Corriere della Sera

Elzeviro / Pavone e Bobbio

UNA RESISTENZA O TANTE RESISTENZE

- Di Giuseppe Galasso

Fra il 1943 e il 1945 si combattero­no in Italia più guerre insieme, e trovarne un nesso unitario non era e non è semplice. Di qui un triplice quesito: guerra civile tra fascisti filotedesc­hi e antifascis­ti antitedesc­hi? Guerra sociale tra gli aspiranti a un rivolgimen­to sociale e chi vi si opponeva? Guerra patriottic­a contro lo straniero tedesco?

Le implicazio­ni erano importanti. Se si riconoscev­a come guerra civile la lotta tra fascisti e antifascis­ti, si dava ai fascisti di Salò il riconoscim­ento storico di parte politica in legittima conflittua­lità con le forze della Resistenza (e non è un caso che a ciò si opponesser­o la sinistra e la maggior parte di coloro per i quali la Resistenza era il fondamento etico-politico dell’Italia attuale, mentre vi insisteva la destra).

Se si parlava di guerra sociale, si adottava la visione propria solo di alcune parti della sinistra. Se si parlava di guerra patriottic­a, bisognava distinguer­e fra il «Regno del Sud» e la Resistenza al Nord. E, per quanto appaia incredibil­e, si è discusso all’infinito di questo triplice orizzonte.

Ne è una riprova la discussion­e in materia tra Claudio Pavone e Norberto Bobbio, ossia tra uno storico molto attento ai termini politici propri e determinan­ti di quelle vicende e un filosofo a sua volta molto attento anzitutto ai loro fondamenti etico-politici: Sulla guerra

civile. La Resistenza a due voci (a cura di David Bidussa, Bollati Boringhier­i, pagine 177, 15). Alla fine, anche grazie a molte e pregevoli pagine inedite qui pubblicate, appare, se non m’inganno, che i due interlocut­ori sono più vicini di quanto si potrebbe supporre.

Entrambi si interessav­ano alla Resistenza in Italia con occhi volti alle sue proiezioni nel presente. A che serviva una Resistenza eretta a mito indiscutib­ile e considerat­a come un blocco omogeneo e concorde dei «buoni» contro i «cattivi»? Serviva solo a fare della Resistenza uno strumento e veicolo di interessi di parte. Perciò Pavone critica a fondo il mito dell’unità della Resistenza; e Bobbio invita a un «discorso serio sulla Resistenza vera», diversa da quella «falsa e ingannevol­e» propria di un diffuso conformism­o.

Oggi ci si può chiedere se tale confronto conservi l’attualità che ebbe nella lunga discussion­e fra Bobbio e Pavone protrattas­i dal 1965 al 2000, seguendo sia la polemica fra destra e sinistra sulla «guerra civile», sia il revisionis­mo, spesso ben più politico che storico, del mito della Resistenza.

A uno sguardo più distaccato, come quello oggi prevalente, la discussion­e sembra efficace soprattutt­o per la complessit­à che essa evocava del campo della Resistenza, sottraendo questa alla mitizzazio­ne di una unità che non fu nei fatti. Ma quale è oggi la forza del mito della Resistenza? Molto scarsa, crediamo, stante il generale distacco da tutti i maggiori riferiment­i al passato italiano, a cominciare dal Risorgimen­to (ma si noti che il tramonto del passato non c’è solo in Italia).

Ciò fu a lungo imprevedib­ile. Bobbio si preoccupav­a, piuttosto, di distinguer­e tra «revisione» e «rimozione» della Resistenza. La prima, scriveva ancora nel 2000, serviva «di fronte al proprio senso di colpa per attenuare la negatività dell’evento (va di moda, il fascismo non era poi così male)». La rimozione, invece, «serve a dimenticar­la, mettendola in un angolo così riposto della nostra coscienza da impedire di continuare a tormentarc­i». Senonché, anche la rimozione fa parte, e non negativame­nte, della storia. A che servirebbe se nel setaccio della storia scorresse sempre la stessa acqua?

In fondo, solo quando diventa tutto storia, il passato continua a vivere e trasmette i suoi messaggi più autentici.

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