Elzeviro / Pavone e Bobbio
UNA RESISTENZA O TANTE RESISTENZE
Fra il 1943 e il 1945 si combatterono in Italia più guerre insieme, e trovarne un nesso unitario non era e non è semplice. Di qui un triplice quesito: guerra civile tra fascisti filotedeschi e antifascisti antitedeschi? Guerra sociale tra gli aspiranti a un rivolgimento sociale e chi vi si opponeva? Guerra patriottica contro lo straniero tedesco?
Le implicazioni erano importanti. Se si riconosceva come guerra civile la lotta tra fascisti e antifascisti, si dava ai fascisti di Salò il riconoscimento storico di parte politica in legittima conflittualità con le forze della Resistenza (e non è un caso che a ciò si opponessero la sinistra e la maggior parte di coloro per i quali la Resistenza era il fondamento etico-politico dell’Italia attuale, mentre vi insisteva la destra).
Se si parlava di guerra sociale, si adottava la visione propria solo di alcune parti della sinistra. Se si parlava di guerra patriottica, bisognava distinguere fra il «Regno del Sud» e la Resistenza al Nord. E, per quanto appaia incredibile, si è discusso all’infinito di questo triplice orizzonte.
Ne è una riprova la discussione in materia tra Claudio Pavone e Norberto Bobbio, ossia tra uno storico molto attento ai termini politici propri e determinanti di quelle vicende e un filosofo a sua volta molto attento anzitutto ai loro fondamenti etico-politici: Sulla guerra
civile. La Resistenza a due voci (a cura di David Bidussa, Bollati Boringhieri, pagine 177, 15). Alla fine, anche grazie a molte e pregevoli pagine inedite qui pubblicate, appare, se non m’inganno, che i due interlocutori sono più vicini di quanto si potrebbe supporre.
Entrambi si interessavano alla Resistenza in Italia con occhi volti alle sue proiezioni nel presente. A che serviva una Resistenza eretta a mito indiscutibile e considerata come un blocco omogeneo e concorde dei «buoni» contro i «cattivi»? Serviva solo a fare della Resistenza uno strumento e veicolo di interessi di parte. Perciò Pavone critica a fondo il mito dell’unità della Resistenza; e Bobbio invita a un «discorso serio sulla Resistenza vera», diversa da quella «falsa e ingannevole» propria di un diffuso conformismo.
Oggi ci si può chiedere se tale confronto conservi l’attualità che ebbe nella lunga discussione fra Bobbio e Pavone protrattasi dal 1965 al 2000, seguendo sia la polemica fra destra e sinistra sulla «guerra civile», sia il revisionismo, spesso ben più politico che storico, del mito della Resistenza.
A uno sguardo più distaccato, come quello oggi prevalente, la discussione sembra efficace soprattutto per la complessità che essa evocava del campo della Resistenza, sottraendo questa alla mitizzazione di una unità che non fu nei fatti. Ma quale è oggi la forza del mito della Resistenza? Molto scarsa, crediamo, stante il generale distacco da tutti i maggiori riferimenti al passato italiano, a cominciare dal Risorgimento (ma si noti che il tramonto del passato non c’è solo in Italia).
Ciò fu a lungo imprevedibile. Bobbio si preoccupava, piuttosto, di distinguere tra «revisione» e «rimozione» della Resistenza. La prima, scriveva ancora nel 2000, serviva «di fronte al proprio senso di colpa per attenuare la negatività dell’evento (va di moda, il fascismo non era poi così male)». La rimozione, invece, «serve a dimenticarla, mettendola in un angolo così riposto della nostra coscienza da impedire di continuare a tormentarci». Senonché, anche la rimozione fa parte, e non negativamente, della storia. A che servirebbe se nel setaccio della storia scorresse sempre la stessa acqua?
In fondo, solo quando diventa tutto storia, il passato continua a vivere e trasmette i suoi messaggi più autentici.