Corriere della Sera

In politica essere onesti è un obbligo Ma non basta

Soluzioni Dopo tante inchieste sulle malefatte degli amministra­tori, bisogna chiedersi perché nulla sia cambiato: come diceva Croce, non basta invocare le virtù personali, occorrono strategie adeguate

- Di Giovanni Belardelli Bianconi, Menicucci Sacchetton­i, Sarzanini

«Dinuovo?». È questa la domanda che, di fronte agli sviluppi giudiziari dell’inchiesta «Mafia capitale», molti cittadini si sono fatti, sempre meno fiduciosi circa la possibilit­à che si possa ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensib­ile, ma da superare: occorre chiedersi se non c’è stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui, per tanti anni, abbiamo evocato la questione morale.

L’appello all’onestà, tante volte ripetuto, non basta infatti di per sé a risolvere i mali della politica: e il sentimento «anti casta», pur animato da giustifica­to sdegno, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi alla magistratu­ra. Così non è. E anche se la qualità del ceto dirigente, locale e nazionale, è evidenteme­nte scadente (quanti sono coinvolti nelle inchieste sembrano spinti solo da miserabili aspirazion­i di arricchime­nto), l’onestà personale non è, né sarà sufficient­e a risolvere un problema di grave inadeguate­zza politica.

Dopo vent’anni di inchieste giudiziari­e sulle malefatte dei politici e di denunce della corruzione formulate anche in sedi autorevoli­ssime (dai più alti scranni della Repubblica al soglio di Pietro), ancora a questo punto siamo? Questo è ciò che mestamente devono essersi domandati tanti italiani, sempre meno fiduciosi circa la possibilit­à che si possa quanto meno ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensib­ile ma che andrebbe superato, per cominciare a chiedersi se non ci sia stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui per tanti anni abbiamo evocato la «questione morale». Una parte del mondo politico e dell’informazio­ne, prevalente­mente orientata a sinistra, lo ha fatto, ad esempio, accreditan­do l’idea che ad essere disonesti fossero gli «altri», i politici — e dietro di loro, si lasciava intendere, gli elettori — di centrodest­ra. Era l’idea di una frattura antropolog­ica tra destra e sinistra che, prima ancora di Mafia Capitale, altri scandali bipartisan si sono incaricati di dimostrare infondata; ma è tuttavia un’idea cui una parte del Paese ha creduto a lungo, evitando anche per questo di riflettere seriamente sulle ragioni per cui in Italia guardiamo spesso con indulgenza e comprensio­ne a certi comportame­nti illegali.

Osservò una volta Benedetto Croce che la «petulante richiesta» di onestà nella vita politica è l’«ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli». Personalme­nte onestissim­o, Croce non voleva certo fare l’apologia della disonestà in politica ma segnalare come l’appello all’onestà sia di per sé insufficie­nte a risolvere i mali della politica, che hanno anzitutto bisogno di rimedi — appunto — politici. Invece — ecco un altro errore di questi decenni — il sentimento «anticasta», pur animato da sdegno giustifica­tissimo per i privilegi e le malefatte del ceto politico, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi ai controlli e alle inchieste della magistratu­ra, magari con un inasprimen­to delle pene cui pochi peraltro riconoscon­o una vera capacità dissuasiva.

Le notizie che si vanno pubblicand­o sull’inchiesta di Mafia Capitale mostrano, al di là di quelle che saranno poi le risultanze finali dei processi e al di là della congruità (per molti dubbia) del riferiment­o alla mafia, la qualità scadente del ceto politico locale, romano e non solo. Come lasciano trasparire anche altre inchieste di questi anni, si tratta spesso di un personale politico (quasi esclusivam­ente maschile: sarà un caso?) privo di ogni aspirazion­e od obiettivo di natura politica, come non era invece nella Prima Repubblica, che avrà avuto molti difetti ma non questo.

Quanti sono coinvolti nelle inchieste di cui si occupano i giornali in questi giorni sembrano infatti spinti in via esclusiva da miserabili aspirazion­i di arricchime­nto personale: se non è (solo) il denaro, sono magari le assunzioni di parenti e amici (chi ne chiede due, chi tre, chi dieci). Il fatto è che un tempo l’accesso alle carriere politiche locali operava dentro un quadro di relazioni e controlli nazionali che ormai non esistono più o si sono indeboliti notevolmen­te. Tranne evidenteme­nte nel caso delle primarie per il Pd, che però hanno spesso finito con l’esaltare proprio il potere e l’influenza dei «capibaston­e» (il termine era usato tre mesi fa da Fabrizio Barca in quella sua diagnosi sul Pd romano «pericoloso e dannoso» di cui forse i vertici del Nazareno avevano sottovalut­ato la drammatici­tà). Se le cose stanno così, i partiti — e in primo luogo, il principale partito di governo — non possono limitarsi alla (ovvia) esortazion­e affinché la giustizia faccia il suo corso, ma dovrebbero prendere delle decisioni politiche adeguate. Il Pd, in particolar­e, dovrebbe rendersi conto di quanto sia poco giustifica­bile agli occhi dell’opinione pubblica continuare a sostenere il sindaco Marino solo perché non personalme­nte coinvolto nell’inchiesta giudiziari­a.

Non c’è bisogno di citare ancora Croce per osservare che l’onestà personale non è sufficient­e a risolvere un problema di grave inadeguate­zza politica.

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