Il Papa, Putin e i timori degli Stati Uniti
L’incontro di domani è un tentativo di evitare una nuova guerra fredda con Usa e Ue sull’Ucraina
Domani il Papa riceverà Vladimir Putin. Sembra che il leader della Federazione Russa chiederà che sia tolto il blocco del governo ucraino ai controversi aiuti russi destinati ai territori orientali. L’assillo vaticano è di scongiurare una nuova guerra fredda tra Usa e Russia. Ma gli Stati Uniti sono preoccupati dalle aperture di Francesco a Mosca.
Domenica il Papa ha ricevuto per un’ora e quaranta il presidente argentino Cristina Kirchner. Ma in realtà da diversi giorni il Vaticano è proiettato su un’altra udienza: quella di domani con Vladimir Putin. Sembra che il leader della Federazione Russa approfitterà dell’incontro per chiedere che sia tolto il blocco del governo ucraino ai controversi aiuti russi destinati ai territori orientali: quelli contesi con i «ribelli» filo-Mosca. Non solo. Nei giorni scorsi il patriarca ortodosso Ilarione ha ribadito discretamente l’apprezzamento per la linea equilibrata e indipendente del Vaticano: un riconoscimento condiviso evidentemente dal Cremlino, del quale l’ortodossia è l’interfaccia religiosa.
L’intervista rilasciata dal presidente russo al Corriere è stata analizzata con la massima attenzione in Segreteria di Stato; e, riferiscono nella cerchia papale, piuttosto apprezzata. Quella frase di Putin, «io non sono un aggressore», a molti sarà parsa sorprendente, sullo sfondo del conflitto in Ucraina. In realtà, per la Santa Sede, Putin rimane un interlocutore inevitabile, e ritenuto prezioso, per arginare il terrorismo islamico in Medio Oriente, e non solo. Per questo, nonostante le pressioni degli Stati Uniti, del governo di Kiev e di un’Europa riluttante, il Vaticano continua a non schierarsi contro la Russia sulla questione ucraina.
L’arcivescovo Sviatoslav Shevchuk, capo della Chiesa grecocattolica a Kiev, ha tentato inutilmente di indurre la Santa Sede a pronunciarsi contro Putin. E se qualcuno fosse capitato il 12 maggio all’International institute for strategic studies di Londra, avrebbe ricevuto la conferma di un Vaticano ancorato all’Occidente, ma non disposto a schiacciarsi pregiudizialmente sulla sua politica estera. Parlando ad una quarantina di analisti della strategia della Santa Sede, il nunzio in Gran Bretagna monsignor Antonio Mennini, in passato «ambasciatore» a Mosca per otto anni, ha ricordato che il Papa non ha mai definito Putin un aggressore.
Sono riflessi di una corrente fortemente maggioritaria all’interno del Vaticano. Spiegano perché la strategia internazionale di Francesco sia guardata oltre Atlantico con un misto di curiosità, ammirazione e perplessità. La diplomazia statunitense avrebbe raccomandato al Vaticano di diffidare di Putin. «Vuole soltanto usare la Chiesa cattolica per coprirsi le spalle», è la tesi di un’America preoccupata dalle capacità di propaganda del Cremlino. Ma il Papa argentino ha sempre mantenuto la sua strategia cauta e autonoma, in piena sintonia con il segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin.
Prevale la consapevolezza delle implicazioni geopolitiche ma soprattutto georeligiose di un’impennata delle tensioni tra Ovest ed Est; e la determinazione ad attenuarle e non ad assecondarle. L’assillo vaticano è di scongiurare che una nuova guerra fredda tra Usa e Russia blocchi la distensione tra mondo cattolico e ortodosso; spacchi quello ortodosso tra filo e anti- russi; e alla fine diventi guerra fredda religiosa. La visiozione ne ripresa da Jorge Mario Bergoglio è quella di Giovanni Paolo II, secondo il quale l’Europa per respirare bene doveva avere «due polmoni: uno orientale e uno occidentale».
Sotto voce, in Vaticano si spiega che la vera mossa vincente di Putin sarebbe quella di convincere il patriarca Ilarione a invitare Francesco a Mosca. Significherebbe bloccare la deriva conflittuale; e favorire la riconcilia- religiosa. Il patriarca verrà a Roma intorno al 20 giugno per incontrare il cardinale Parolin, ma non si esclude anche un colloquio con Francesco. Finora, le difficoltà per una visita del Papa in Russia si sono rivelate insormontabili per la competizione all’interno del mondo ortodosso, e per le diffidenze storiche nei confronti del cattolicesimo: anche se Francesco sarebbe pronto a concedere molto all’ortodossia di Mosca.
La sua mediazione nelle crisi mondiali lo consacra come un protagonista, che la guerriglia insistente e sotterranea dei suoi avversari nella Curia romana non intacca. Si intuisce anche dall’attenzione con la quale gli Stati Uniti si preparano a riceverlo a fine settembre. La previsione è che sarà una festa popolare, accompagnata dall’ostilità di chi somma le aperture a Putin a quelle al cubano Raul Castro per criticarlo. L’incontro con il dittatore cubano a Roma circa un mese fa ha fatto scrivere il 19 maggio scorso al Wall Street Journal, portavoce della comunità finanziaria statunitense, che «molti cattolici» sarebbero rimasti «perplessi, e a ragione».
Il Pontefice latinoamericano avrebbe mostrato con quell’udienza cordiale un riflesso dell’«antipatia» verso gli Usa. Gli ambienti nostalgici delle sanzioni contro Cuba, tra i repubblicani ma anche tra i democratici, non digeriscono la mediazione del Vaticano. E sono pronti a farsi sentire in vista delle elezioni presidenziali del 2016: un modo per attaccare sia Barack Obama, sia i candidati moderati repubblicani come Jeb Bush, prudente sul ruolo papale. La Casa bianca sarebbe rimasta sorpresa dalla decisione di Francesco di arrivare a Washington fermandosi prima all’Avana: un «passaggio a Sud» che il Papa ha pensato e voluto fin dall’inizio, sfidando anche qualche perplessità.
La domanda che gli Stati uniti si sono posti è perché Bergoglio abbia deciso di fare tappa nell’ultimo baluardo del comunismo caraibico. Il cliché del «Papa socialista», cara ad alcuni esponenti conservatori, appare risibile. L’anticomunismo di Bergoglio risale ai tempi della Compagnia di Gesù in Argentina. Che ora Francesco si mostri disponibile al dialogo con i teologi della liberazione con i quali in passato era in urto, si spiega soprattutto col fatto che il marxismo è morto; e non rappresenta più il pericolo di un tempo per la Chiesa. La spiegazione, dunque, è diversa.
Il cattolicesimo cubano, guidato dal cardinale Jaime Ortega, e lo stesso regime castrista non vogliono che i negoziati iniziatisi alla fine del 2014 si riducano ad una trattativa bilaterale Cuba-Usa. Castro avrebbe chiesto con insistenza al Pontefice di accompagnare la transizione. In cambio, Francesco avrebbe ricevuto l’assicurazione che saranno ampliate le libertà oggi ancora represse. È una partita delicata: tanto che il cardinale Ortega, quasi settantanovenne, non dovrebbe essere sostituito neanche al compimento degli ottant’anni. Ha un ruolo troppo strategico per essere cambiato in questa fase.
«Nessuno vuole che Cuba diventi un’appendice di Miami», spiegano in Vaticano. La Chiesa dovrebbe funzionare come un antidoto contro lo scivolamento verso una società consumistica. Eppure, è probabile che la conquista della libertà, seppure a tappe, accentui il richiamo potente dello stile di vita americano: anche se la parola «yankee», nel mondo cubano, continua ad avere un’eco inquinata da oltre mezzo secolo di dittatura e di guerra fredda.