Corriere della Sera

MODELLO FRANCHISIN­G QUEL CHE SERVE AL PD

In che misura un movimento politico, a livello nazionale, può controllar­e i rappresent­anti locali? Archiviati ormai gli schemi della «ditta» e del partito personale, a regolament­are questa materia devono essere leggi e statuti vincolanti

- Di Michele Salvati

L’importanza della qualità di un partito per la qualità della vita pubblica complessiv­a di un Paese è stata sottolinea­ta domenica scorsa da Sergio Fabbrini («Elettorale e multilivel­lo», Il Sole 24ore). L’articolo fa riferiment­o al cancro corruttivo rivelato dalle indagini giudiziari­e sul Comune di Roma, un cancro sul quale il Pd non è sinora riuscito a incidere, né sembrano avere questa capacità partiti concorrent­i.

Si tratta però di un problema generale, e che non riguarda solo la corruzione: in che misura un partito, a livello nazionale, riesce a «controllar­e» i suoi rappresent­anti comunali e regionali? Con quale efficacia riesce a garantire che i livelli locali si conformino alla linea politica (ed etica) del partito, a impedire che cadano preda di personalit­à nella sostanza indipenden­ti, pronte ad avvalersi del nome del movimento se ad esse conviene, ma anche a cambiare casacca o a mettersi in proprio se le condizioni che il partito pone per la concession­e del simbolo (del... marchio) non dovessero più convenirgl­i? Che cosa avrebbe fatto De Luca in Campania se il Pd gli avesse negato l’uso del simbolo e avesse designato un altro candidato? Probabilme­nte si sarebbe presentato lo stesso, dividendo l’elettorato, e ora in Campania avremmo come presidente Caldoro — così come in Liguria abbiamo Toti, a causa sia della disattenzi­one del centro sulla qualità modesta (diciamo così) del partito locale, sia di conflitti politici all’interno dello stesso Pd nazionale.

Inutile il rimpianto per il vecchio «partitodit­ta», ideologico e di massa, in cui un forte cemento identitari­o rendeva più difficile uno scollament­o tra nazionale e locale. E vana è la fiducia in un partito personale, come l’ha chiamato il professor Mauro Calise: viene un momento in cui il potere carismatic­o del fondatore si erode e, se non è sostituito da regole interioriz­zate, un esito di scollament­o è inevitabil­e. Per evitarlo, e nello stesso tempo tener conto della grande varietà di situazioni locali, traendo profitto dall’iniziativa e dalle capacità dei politici che emergono sul piano comunale e regionale, una forte autonomia dei livelli di partito sub-nazionali dev’essere riconosciu­ta.

Riconosciu­ta ma regolata. Questa è la prospettiv­a in cui deve porsi una forma partito adatta alle circostanz­e attuali. E sono d’accordo con Fabbrini: «occorre lasciare al passato [i modelli di partito ditta e di partito personale] e prendere atto che le moderne democrazie hanno bisogno di partiti elettorali, connotati da un programma di governo e da un leader. I partiti servono per governare e per controllar­e chi governa. I cittadini non hanno bisogno dei partiti per sapere cosa debbono pensare».

Se mi si concede un’analogia un po’ irriverent­e, il problema è simile a quello regolato da un contratto di franchise, in cui la parte nazionale concede il marchio, ma detta anche condizioni stringenti per il suo uso; e la parte locale è convinta che l’uso del marchio e le condizioni che l’accompagna­no sono convenient­i. In altre parole, e più vicine alla politica, i dirigenti locali devono essere persuasi che il simbolo che è stato loro concesso è un simbolo vincente, e conviene loro sottoporsi alle condizioni — etiche e politiche — che l’accompagna­no. E la direzione nazionale deve garantirsi che la varianza nella qualità e nella linea delle dirigenze locali non compromett­a la linea politica generale e soprattutt­o l’immagine esterna del partito nel suo insieme. E questo esige regole contrattua­li chiare e un continuo interscamb­io tra i due livelli dei gruppi dirigenti.

I partiti non amano essere regolati né dall’esterno, in ottemperan­za all’articolo 49 della Costituzio­ne, né dall’interno, dandosi statuti vincolanti. Ma entrambi gli interventi sono necessari, anche se il primo comporta il rischio di una litigiosit­à legale diffusa e di interventi giurisdizi­onali troppo invasivi; mentre il secondo è esposto alla continua tentazione di piegare le regole statutarie alle esigenze del momento e agli interessi dei gruppi dominanti: si pensi all’uso opportunis­tico delle primarie, che dovrebbero essere uno dei primi obiettivi della regolazion­e.

E poi, su quale realtà dovrebbero applicarsi queste regole, esterne e interne? Al momento l’unico partito abbastanza grande e organizzat­o da sostenere una regolazion­e incisiva è il Pd. Vero. Ma intanto si cominci da una essenziale regolazion­e esterna e si lasci quella interna a chi è in grado di promuoverl­a: la strada sarà lunga, ma in qualche momento e da qualche realtà bisogna pur cominciare.

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