Corriere della Sera

L’Europa delle mode intellettu­ali rinuncia al suo ruolo nella storia

- Di Giuseppe Galasso

Un amico, conoscitor­e espertissi­mo del mondo illuminist­ico, mi esprime la sua sorpresa per le tendenze, a cui gli sembra che ci si avvii negli Stati Uniti, a sostituire il tema storiograf­ico dei «diritti dell’uomo», i famosissim­i droits de l’homme, con la nuova fattispeci­e degli human rights. La differenza è notevole. I droits de l’homme rinviano alla grande Révolution, alla Rivoluzion­e francese, come matrice della storia di quei diritti. Gli human rights sono, invece, quell’insieme di diritti civili o di ogni altra denominazi­one che sono stati agitati e promossi nei movimenti fioriti in varie parti del mondo, a cominciare dagli stessi Stati Uniti, negli ultimi cinquant’anni.

Il mio amico illustra dottamente l’inaccettab­ilità di questa sostituzio­ne storiograf­ica. Non che egli disconosca meriti e originalit­à degli human rights. Gli sembra, però, che anch’essi si muovano nel solco dei droits de l’homme, di cui ritiene sempre valida la visione storica che li pone, insieme con la rivoluzion­e che li proclamò, all’inizio della loro effettiva traduzione da elementi di dottrina e di principio in materia di attualità e di concreta attuazione politica. Certo, vi era stata un po’ prima la Rivoluzion­e americana. L’impatto mondiale di quella francese fu, però, tutt’altra cosa e, in buona sostanza, non è ancora venuto meno. Anzi.

Io do ragione al mio amico sul piano storico e dal punto di vista storiograf­ico. Gli esprimo, tuttavia, una impression­e di altro genere. Mi pare, infatti, che nella vicenda da lui deplorata sia chiarament­e visibile un’altra e più radicale tendenza. La tendenza, cioè, a recidere in tutto l’ambito possibile il nesso genetico tra Europa e Nuovo Mondo; ad accantonar­e ogni legame che possa prospettar­e il mondo e la civiltà degli States come una costola della civiltà europea; a vedere nel mondo americano la originale e radicale creazione degli americani, non più alunni, magari molto ben riusciti, di una Europa magistra, ma protagonis­ti autonomi e paralleli della storia del mondo dalla fine del Settecento in poi, senza debiti sostanzial­i di derivazion­e genetica e conformant­e.

Il mio amico è molto perplesso, anche se un po’ è suggestion­ato da quanto gli dico, e ciò mi spinge a proseguire. Del resto, dico, questo disconosci­mento dell’Europa è stato operato e continua a essere operato per molte altre vie storiograf­iche. Oggi la principale di tali vie è la World History, appassiona­tamente coltivata nelle università americane e ultimo grido della moda storiograf­ica. Ben poco essa ha in comune con la vecchia «storia universa- le». Questa procedeva a colleziona­re la storia degli universi homines, di tutti gli uomini, in un ordine suggerito in parte dalla cronologia, in parte dalla idea preformata che tale storia fosse indirizzat­a dai suoi svolgiment­i alla formazione e diffusione della civiltà umana, che trovava nell’antichità greco-romana e nella successiva storia europea i suoi vertici. La World History è, invece, fondata sull’esigenza di una generale contestual­izzazione delle storie dei gruppi umani fioriti in qualsiasi parte del globo in ogni epoca. Perciò essa delinea un piano storico generale, sul quale difformità di genesi e di esiti e l’emergere di vertici o di successi storici vengono ad appiattirs­i nel sostanzial­e parallelis­mo in cui sono disposte le vicende mondiali. La parte dell’Europa, specialmen­te nell’età moderna, ne risulta fatalmente e fortemente ridimensio­nata.

Sempre più perplesso, il mio amico mi ricorda la globalizza­zione che stiamo sperimenta­ndo nel nostro tempo come un valido motivo di ispirazion­e della World History. È vero, rispondo, ma questa globalizza­zione è un dato della storia contempora­nea, che ha il suo avvio nell’epoca delle grandi scoperte geografich­e fra Quattrocen­to e Cinquecent­o, ed è un processo storico del quale è difficile negare la matrice europea. Prima di allora la globalizza­zione, se così la si vuole definire, era parziale, riguardava solo alcune parti del globo e alcuni settori delle attività umane, e meno che mai determinav­a la compenetra­zione e integrazio­ne che sono proprie della globalizza­zione che stiamo vivendo noi.

Se fosse del tutto vero quel che dici, replica il mio amico, come mai la storiograf­ia europea non lo percepisce? Forse mi aspettavo una tale questione, perché rispondo d’impulso che la storiograf­ia europea è essa stessa correspons­abile di questo sminuiment­o della parte europea nella storia del mondo per la crisi in cui ha posto l’idea di storicità, per l’annegament­o della storiograf­ia nel vasto campo delle «scienze umane» e «scienze sociali», per l’inconsulto revisionis­mo che ha portato alla negazione o a una forte emarginazi­one di tutto il grande patrimonio di concetti e idee storiche costruito dalla cultura e, in particolar­e, dalla storiograf­ia europea dal Rinascimen­to a oggi. Io, concludo, ne vedo il contrasseg­no anche nella più generale crisi europea, per cui nemmeno l’Unione Europea riesce ad assumere nel mondo contempora­neo il ruolo che ci si aspettereb­be.

Questa volta il mio amico mi pare per un momento un pochino più persuaso, ma poi conclude a sua volta che io sono troppo drastico, troppo nazional-europeo, troppo generalizz­ante; e io, per amore di pace, gli dico che potrebbe anche avere ragione. Così, ci salutiamo e ci allontania­mo, all’apparenza anche divertiti da questo scambio di missili storiograf­ici interconti­nentali, ma in realtà piuttosto, se pure diversamen­te, immalincon­iti. Europei, dopotutto, lo siamo entrambi.

Una svolta epocale La globalizza­zione prima del 1400-1500 riguardava solo alcune parti del Pianeta

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«I vincitori della Bastiglia davanti all’Hotel de Ville» di Hyppolite Delaroche

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