Le ballerine, le brasserie e il trinciato Il mondo di Maigret secondo Pintér
La ricerca dell’illustratore sul commissario di Simenon: quasi un’indagine
La lettera è datata 3 gennaio 1977, è indirizzata a Federico Fellini e si conclude con una firma talmente vera da infischiarsene della retorica: «Il suo devoto ammiratore Georges Simenon». Nella sua missiva il regista raccontava di aver visto, a Zurigo, le bozze di certi Simenon e non nascondeva i suoi dubbi sulle copertine illustrate con i disegni di Picasso. Lui, Fellini, avrebbe scelto fotografie di persone anonime...
Nel leggere quelle parole, Simenon deve essersi tolto di bocca la pipa dall’entusiasmo, perché, risponde, le copertine fotografiche le ha inventate proprio lui, «nel 1932, in occasione del lancio dei primi Maigret». Peccato che per l’editore Fayard quell’idea fosse una maledizione. Simenon e il fotografo battevano Parigi in cerca dello scenario giusto. Per Il cane giallo si mette all’opera un giovane Robert Doisneau; Man Ray si occupa di Un crimine in Olanda. Ma il risultato era fragilissimo: perché non diventasse opaca, la fotografia andava verniciata, finendo poi per screpolarsi. Oggi Adelphi può mandare serenamente in libreria i Simenon con eleganti copertine fotografiche, rendendo oltretutto un omaggio alla lungimiranza del suo autore, ma allora era un’altra storia.
Il tirocinio da giornalista alla «Gazette de Liège» e l’apprendistato dei romanzi sentimentali o d’avventura sensibilizzano Simenon al richiamo di un titolo e di una copertina azzeccati. Che non significa volgari: «Non ho mai creduto che il cattivo gusto sia una necessità per le tirature cosiddette popolari», scrive. Così non c’è contratto per la pubblicazione in qualsiasi Paese che non preveda il severo esame dell’autore.
Nel 1991, a 60 anni, Ferenc Pintér lascia l’ufficio grafico della Mondadori per la pensione e chiude un capitolo lungo trent’anni, nei quali, con le sue copertine, ha accompagnato nelle case degli italiani i classici stampati negli Oscar e in altre collane. Simenon, Hemingway, Steinbeck, Singer, Kerouac, Christie, Pavese, Deledda, Soldati... Un passo dietro l’autore, ma custode della chiave che apre la porta.
Le copertine di Pintér hanno in comune la mano sintetica, la stilizzazione delle figure, i netti contrasti. Disegni che colgono l’essenza simbolica dell’opera letteraria senza curarsi di raffigurarla. Roba da lettori capaci si spingersi in profondità, ancor prima che da illustratori.
Nato ad Alassio da padre ungherese e madre fiorentina, Ferenc studia belle arti in Ungheria, segue il richiamo della grafica applicata ai manifesti, spazia dalle grandi superfici murarie alle riviste, nei limiti imposti dai canoni del realismo socialista. Con la rivolta del ’56 lascia l’Ungheria e si stabilisce a Firenze. Simenon è un «cliente» difficile, ma Ferenc non lo delude. I primi Maigret sono del ’61 e il modello del commissario è Jean Gabin. In seguito ci sarà sempre e solo Gino Cervi. Il rapporto tra romanziere e grafico è filtrato dalla struttura editoriale, ma c’è come un legame di sangue. Georges ha orrore della Letteratura, Ferenc rifiuta l’etichetta di Artista: preferiscono dirsi artigiani, con la minuscola. Economia di segni (parole e pennellate), straordinaria resa evocativa. Attenzione all’atmosfera, più che all’aneddoto. Per non parlare della pipa. Insomma, fratelli.
Lo scultore Santo Alligo ha raccolto nel bellissimo I Maigret di Pintér ( Little Nemo, pagg 238, 38) tutte le copertine. A caso: quella dell’Oscar Due giorni per Maigret, del ’70. Il commissario è seduto di spalle, circondato da seggiole che gli danzano attorno sottili come ballerine. La composizione si regge sull’accostamento tra il bianco del fondo, il verde acquerello delle Thonet e la sago- ma nera del poliziotto. Cappotto, Borsalino, pipa. Una sciarpa color zafferano, come una luce riflessa dal giallo acido del titolo. Deve essere una giornata gelida. Il tempo scorre lento. Maigret è immerso in uno dei suoi stati di trance: osserva, assorbe. Si gira appena verso sinistra, attratto da qualcosa. È la sintesi della sua anima. E può riferirsi a una qualsiasi delle inchieste che formano la raccolta. Da quella che dà il titolo al volume (nell’edizione Adelphi è Assassinio all’Étoile du Nord), la Parigi di un alberghetto dalle parti della Gare du Nord, a quella di Tempesta sulla Manica, ambientato in una lugubre Dieppe novembrina, a quella di Stan l’assassino, il terzo racconto, con un Maigret appostato nel IV Arrondissement di Parigi per catturare lo spietato capo di una banda di polacchi...
Il capolavoro? Forse la copertina de La ballerina del GaiMoulin (Oscar, ’72). Il corpo dell’entraîneuse s’intuisce in tutta la sua indifesa carnalità, pur essendo appena accennato dalla pennellata trasparente del petto e delle braccia, aperte in un’ambigua postura che è sia una crocifissione sia un gesto di accoglimento del cliente di turno. Le labbra rosse sono dischiuse, non si sa se al dolore o al piacere. Il resto di Adèle, del suo corpo, non c’è, svanito nel bianco sporco della pagina, eppure è lì, caldo, evocato dalle macchie nere del reggiseno e degli slip. Mentre dall’ombra emerge il profilo ruminante del commissario, in disparte come si addice al suo pudore.
Pintér è scomparso nel febbraio 2008. Pochi mesi prima aveva ricordato il suo «personale coinvolgimento» nell’umanità di Maigret, i suoi viaggi a Parigi in cerca della brasserie Dauphine e del gris, il trinciato francese del commissario. Di brasserie con quel mite tepore che odora di birra e di calvados ne trovò più d’una. Il povero gris, invece, si rivelò insopportabile: ne conservò il pacchetto, svuotato, in ricordo. Un fallimento. Maigret lo avrebbe consolato con le stesse parole usate nella Casa del giudice: «Si è pronti a tutto, ma non alle bizzarrie della realtà».