C’ERANO UNA VOLTA I SUPER SINDACI
Dov’èfinita la rivoluzione dei sindaci, che negli anni Novanta cambiarono il volto della politica italiana? Oggi — travolti dal malaffare, accerchiati dai faccendieri, fischiati in piazza, commissariati dal governo — sono impotenti e impopolari.
Che cosa succede ai sindaci? Travolti dal malaffare, accerchiati dai faccendieri, fischiati in piazza, commissariati dal governo. Impotenti e impopolari. Dov’è finita la rivoluzione dei nuovi eroi che cambiarono il volto della politica italiana negli anni Novanta, grazie all’elezione diretta? Nel Duemila Rutelli, al massimo del suo splendore capitolino, gestiva da sindaco il Giubileo; ora è Marino il giubilato. Nella Napoli in cui Bassolino riceveva con Berlusconi i Sette Grandi, adesso arranca de Magistris, spogliato di ogni potere su un terzo del suo territorio, commissariato dall’immensa area di Bagnoli fino al Porto. Nella Venezia del doge Cacciari, oggi si vota per scegliere chi sostituirà Orsoni, il sindaco arrestato e dimessosi esattamente un anno fa per lo scandalo del Mose. A Milano Pisapia ha perfino rinunciato a provare il bis. A Genova c’è già stato l’affondamento del Doria, spazzato via da un’alluvione. A Bologna è in corso il siluramento del Merola, sotto il fuoco, per così dire amico, del suo stesso partito. E a Salerno, è bene ricordarlo, governa un vicesindaco nominato, il capo staff di De Luca, e non perché quest’ultimo sia stato eletto governatore, ma perché già prima un tribunale l’aveva giudicato decaduto, oltre che condannato.
Vent’anni fa i sindaci rappresentarono una risposta dal basso alla crisi dello Stato dei partiti, picconato da Tangentopoli. La prima elezione diretta della storia d’Italia fece da valvola di sfogo all’antipolitica e la trasformò in un conato di rinnovamento, di rifondazione della politica. Oggi invece sono proprio i sindaci la prima trincea della crisi di uno Stato senza più partiti. Perché?
La prima risposta sono i soldi. Ce ne sono molti meno che allora. Usciamo da sette anni di guai e di recessione. Lo Stato centrale è più famelico che mai e divora i fondi un tempo destinato ai Comuni. L’arma dei sindaci, la personalizzazione, gli si è ritorta contro: oggi viene imputato loro tutto ciò che non va nelle città, anche quando possono poco.
Il secondo motivo sono le primarie. Non sempre vince il migliore, anzi. Ignazio Marino è stato giudicato più adatto a governare Roma di Paolo Gentiloni, che adesso fa il ministro degli Esteri. Doria ha battuto la Pinotti, considerata abbastanza brava da fare il ministro della Difesa e forse perfino il capo dello Stato ma non il sindaco di Genova. Paradossalmente è stata proprio l’estensione massima della democrazia diretta a inceppare il meccanismo. Le primarie bruciano quel po’ di classe dirigente che i partiti riescono ancora a selezionare. A chi vince non restano che gli scarti, i signori delle tessere e delle preferenze, gli imbroglioni che usano la politica per fare affari.
Infine il terzo motivo: il tempo. Un quarto di secolo dopo la gente non pensa più che la storia si possa cambiare dalla periferia: quando il gioco si fa duro la partita si gioca nello Stato centrale, perché è di lì che passano quel poco di risorse e di decisioni ancora concesse alla sovranità nazionale. Così anche l’antipolitica si è ri-nazionalizzata, e oggi si chiama Grillo, o Salvini.
Non a caso le istituzioni del decentramento sono tutte in crisi: le Province abolite, le Regioni screditate e disertate nelle urne, i Comuni sotto la sferza dei giudici e del malcontento. Oggi fare il sindaco è un mestiere pericoloso ed effimero. Perfino Renzi è stato lesto a lasciare la sua città durante il primo mandato per conquistare il centro, e oggi riporta a Roma risorse e poteri (con le gestioni commissariali dell’Expo, di Bagnoli, del Giubileo). Dando vita proprio lui, il sindaco d’Italia, a una stagione di neocentralismo.
Neocentralismo Quello di primo cittadino è un mestiere pericoloso Persino Renzi oggi riporta a Roma risorse e poteri