Confini chiusi, caos a Ventimiglia La fuga dei profughi sugli scogli
A piedi lungo l’Aurelia chiusa al traffico. Ahmed: lasciatemi andare fino in Svezia
Il porto turistico di Mentone è lì di fronte, a 500 metri. Dagli scogli si vedono gli alberi delle barche a vela e la gente che corre sul lungomare. Prima c’è un muro di gendarmi francesi che da due giorni blocca il confine ai profughi e disperati di passaggio dall’Italia, e anche dalla Francia. «Vogliamo andare in Svezia, lì c’è la sorella di mia moglie», dice sorridendo Ahmed in un inglese stentato ma comprensibile. Conta i giorni con le due mani, alla fine fa 35 dalla partenza in Sudan. Ha portato con sé tutta la famiglia, sono in 5, anzi 6: Hussein, 12 anni, Ludan, una bella bambina di 9, Mohammed, 5, che gioca tra i poliziotti in tenuta anti sommossa, e Sahar, la moglie, incinta di 7 mesi. «Da qui non ci muoviamo», ripete deciso, e gli occhi gli brillano come se questa barriera di gendarmi fosse solo un contrattempo, un imprevisto che non può certo fermarli.
Sono una sessantina i migranti che, quando nel pomeriggio poliziotti e carabinieri italiani hanno spinto indietro a un chilometro dal confine i disperati, si sono rifugiati sugli scogli. Alcuni hanno minacciato di buttarsi in mare, uno l’ha fatto per davvero, e così le forze dell’ordine sono rimaste lì a scrutarli fino a tarda sera, per evitare che qualcuno si potesse far male. Gli altri, un centinaio, hanno superato la galleria verso Ventimiglia, metà di loro ha continuato fino in città, 5 chilometri a piedi, gli altri si sono seduti a bordo dell’Aurelia, chiusa verso la Francia.
Anche Usman, pure lui sudanese, che si è rotto il bacino in Libia, non ci pensa nemmeno a lasciare il suo avamposto e tornare indietro con le stampelle. Sugli scogli un ragazzo agita un cartone dove ha scritto « We are not Congo back », non torniamo in Congo. Le donne e i bambini si sono sistemati nell’aiuola brulla di fronte agli uffici della dogana, sotto le palme nane. Gli uomini restano in bilico sull’acqua, si riuniscono a capannelli, parlano con i funzionari di polizia, ma quando il sole cala e si accendono le luci di Mentone, sono ancora lì.
«Un mese fa l’avevo detto al prefetto che sarebbe finita così — si lamenta il giovane sindaco di Ventimiglia, Enrico Ioculano, Pd —. Non è normale che la Francia blocchi i confini in questo modo. É un dramma internazionale, e non è possibile che tocchi a un Comune affrontare da solo l’emergenza».
Davanti alla stazione ieri pomeriggio ha fatto montare moduli d’emergenza con bagni e docce. La prima assistenza è garantita dalla generosità delle associazioni, come la Caritas o la Croce Rossa. Una volontaria marocchina, con il velo, che ha provato in tutti i modi a convincere i migranti ad abbandonare gli scogli, torna in lacrime, esausta e delusa. La Croce rossa francese distribuisce tè caldo e fette di dolce; un uomo, dai tratti africani, arriva in scooter e scarica tre cartoni d’acqua.
Il neo governatore della Liguria Giovanni Toti la butta sulla politica dell’accoglienza: «La drammatica giornata a Ventimiglia è la dimostrazione che tutti i pericoli che abbiamo sottolineato ai prefetti si stanno purtroppo verificando a scapito della cittadinanza». Per Luigi Di Maio, M5S, vice presidente della Camera, «l’Italia è una pentola a pressione che sta per scoppiare. Non è tollerabile che la Francia chiuda le frontiere e lasci tutti questi disperati a noi».
Alle dieci di sera, quando è già buio, i sessanta irriducibili restano in cinquanta. Una decina salgono su un pullman per passare la notte in stazione e avere almeno un pasto caldo. L’ultimo a salire è Ahmed, con la famiglia. Ha sempre il sorriso sulle labbra, e allarga le braccia. Come per scusarsi.