QUELL’EUROPA IMPREPARATA AL COMPLEANNO DI SCHENGEN
Il Trattato di Schengen è una promessa di libertà. Una delle poche mantenute dai governi europei. Oggi l’accordo che ha abolito le frontiere all’interno del Vecchio Continente compie trent’anni. Era nato nel 1985, quando l’Europa era ancora spezzata dal muro di Berlino. Oggi vi aderiscono 22 Stati Ue più quattro esterni, cioè Norvegia, Svizzera, Islanda e Liechtenstein.
I risultati economici della libertà di movimento sono chiari. Uno su tutti: il mercato unico non si sarebbe potuto sviluppare nel chiuso dei recinti e dei confini. I commerci e i traffici hanno bisogno di spazio. Ma Schengen non è solo economia. Lo stiamo scoprendo proprio in questi giorni in cui se ne chiede la sospensione, proposta tra gli altri dal governatore della Lombardia Roberto Maroni, se non addirittura l’abolizione, come predica la leader del Front national, Marine Le Pen.
È comprensibile che larga parte dell’opinione pubblica si senta spiazzata, disorientata di fronte ai migranti accampati a migliaia nelle stazioni o sotto le piante. Un sentimento che può diventare rabbia, rifiuto, chiusura. Si capisce anche che a questo punto gli appelli alla solidarietà, allo spirito di umanità e di accoglienza non siano più sufficienti. Finora le capitali europee non sono state in grado di trovare le misure per arginare i flussi. E tanto più i tentativi dei governi si dimostrano velleitari alla prova dei fatti, tanto più i cittadini, esasperati, prestano ascolto alle illusioni demagogiche.
Ma il punto è che ripristinare i confini non significa affatto essere in grado di rendere impermeabili le frontiere. La Francia chiude Ventimiglia? È solo questione di giorni, di settimane e poi i migranti troveranno altri varchi. Magari con l’aiuto delle organizzazioni criminali. Lo dimostra l’esperienza degli ultimi anni, basta vedere come sono cambiate le rotte, passando prima dal Marocco, poi dalla Tunisia, quindi dalla Libia e dalla Turchia. Troppo facile, ma anche poco produttivo, prendersela con Schengen.